Trump e lo spettro di una nuova Yalta

Giancarlo Summa, autore di questo articolo insieme a Monica Herz, sarà lunedì 17 febbraio, alle 16.30,  a Roma come relatore nella conferenza “Attacco al multilateralismo e alla democrazia in America Latina… e non solo”, che si terrà al CeSPI, piazza Venezia 11.
[Questo articolo è stato pubblicato originariamente in portoghese su The Conversation, con il titolo “Ameaças de Trump controlam agenda política global e redesenham zona de influência dos EUA na América Latina”].

—- 

Esattamente 80 anni fa, i leader delle tre principali potenze alleate nella Seconda guerra mondiale (Stati Uniti, Unione Sovietica e Gran Bretagna) si incontrarono a Yalta, una località balneare in Crimea sul Mar Nero, per l’ultimo vertice dei capi di Stato prima della sconfitta militare del nazifascismo, che sarebbe avvenuta tre mesi dopo. 
Tra il 4 e l’11 febbraio 1945, Franklin D. Roosevelt, Joseph Stalin e Winston Churchill e le rispettive delegazioni siglarono accordi con conseguenze fondamentali per il futuro della politica internazionale. In particolare, i leader occidentali concordarono che i futuri governi dei Paesi dell’Europa orientale confinanti con l’URSS avrebbero dovuto intrattenere relazioni “amichevoli” con il regime sovietico. Il regime sovietico avrebbe dovuto anche avere una zona di influenza in Manciuria, dopo la capitolazione del Giappone. Infine, tutte le parti accettarono il piano statunitense relativo alle procedure di voto all’interno del Consiglio di Sicurezza della futura Organizzazione delle Nazioni Unite, che avrebbe cinque membri permanenti (tra cui Cina e Francia), ciascuno con potere di veto su tutte le decisioni.

 

80 anni dopo Yalta

Oggi, otto decenni dopo, l’Impero britannico e l’Unione Sovietica esistono solo nei libri di storia e la Cina è diventata la principale potenza emergente del mondo. L’ONU e il sistema multilaterale sono in crisi di identità e legittimità e subiscono un attacco senza precedenti proprio dal Paese che ha creato l’Organizzazione.
Tornato alla Casa Bianca, Donald Trump sembra intenzionato a riportare indietro l’orologio. Nel suo discorso inaugurale, ha citato William McKinley, l’ultimo presidente americano del XIX secolo (1897-1901) e il padre dell’imperialismo americano, come sua fonte d’ispirazione. 
McKinley, convinto protezionista e determinato espansionista, sconfisse la Spagna nel 1898, dando agli Stati Uniti il controllo di Cuba e Portorico nei Caraibi, nonché delle Filippine in Asia. Nello stesso anno decretò l’annessione delle Hawaii, assumendo così il controllo delle rotte marittime dell’Oceano Pacifico. 
Il suo successore, Teddy Roosevelt, continuò questa politica espansionistica, articolando una strategia che chiamò “diplomazia del bastone”, riassunta nel motto “parla piano e porta un grosso bastone, andrai lontano”. Da parte sua, Trump non parla nemmeno a bassa voce: ha annunciato di voler acquisire la Groenlandia (territorio della Danimarca), di voler riprendere il controllo del Canale di Panama e di voler rinominare il Golfo del Messico “Golfo d’America”. E con un tono appena appena provocatorio, ha anche detto che il Canada dovrebbe diventare il 51° Stato degli Stati Uniti.

A Yalta: da sinistra, Winston Leonard Spencer Churchill (1874 – 1965), ranklin Delano Roosevelt (1882 – 1945) e Joseph Stalin (1879 – 1953) (Iosif Vissarionovich Dzhugashvili).

Trump, però, ha compreso appieno il concetto di bastone. Ogni giorno scatena una raffica di misure aggressive e unilaterali, sia in patria che all’estero. Nel solo giorno del suo insediamento, il 20 gennaio 2025, ha firmato 26 diversi “ordini esecutivi” che, tra gli altri attacchi al sistema multilaterale, hanno determinato il ritiro degli Stati Uniti dall’Accordo di Parigi sui cambiamenti climatici e dall’Organizzazione mondiale della sanità (OMS), nonché il congelamento immediato, per 90 giorni, degli aiuti umanitari e dei fondi della cooperazione internazionale. Due settimane dopo, il multimiliardario Elon Musk, a capo del nuovissimo Department of Government Efficiency (DOGE), ha annunciato che lui e Trump avrebbero chiuso completamente l’Agenzia per lo sviluppo internazionale (USAID), creata nel 1961 dal presidente John F. Kennedy. 

Il 4 febbraio, anniversario esatto dell’inizio della Conferenza di Yalta 80 anni fa, Trump ha firmato un altro ordine esecutivo, annunciando che entro i successivi 180 giorni “dovrà essere completata un’analisi di tutte le organizzazioni intergovernative internazionali di cui gli Stati Uniti sono membri […] e fornire raccomandazioni sull’opportunità che gli Stati Uniti si ritirino da una qualsiasi di queste organizzazioni, convenzioni o trattati”. 

Con un tratto di penna, Trump ha firmato il ritiro degli Stati Uniti dall’UNRWA (l’agenzia ONU che fornisce assistenza ai rifugiati palestinesi) e dal Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite, e ha detto che avrebbe rivisto la sua partecipazione all’UNESCO. Due giorni dopo, la Casa Bianca ha comunicato che il Presidente avrebbe imposto sanzioni contro la Corte penale internazionale, accusandola di ostilità nei confronti degli Stati Uniti e dei suoi alleati, come Israele.

Moltiplicando gli annunci e le dichiarazioni altisonanti, Trump è diventato padrone delle notizie e dell’agenda politica globale (e nazionale), impedendo ai suoi avversari di organizzarsi o di provare a reagire efficacemente.

Non è tutto. Trump ha anche minacciato di bruciare i ponti della globalizzazione commerciale che hanno plasmato il mondo negli ultimi decenni. Il 30 gennaio ha annunciato l’imposizione di tariffe del 25% sulle importazioni da Messico e Canada (in diretta violazione dell’Accordo di libero scambio nordamericano, che risale al 1994 ed è stato modificato dalla prima amministrazione Trump nel 2018). Questa decisione è stata temporaneamente sospesa per 30 giorni, il 3 febbraio, dopo che i due Paesi hanno promesso di militarizzare i loro confini con gli Stati Uniti per fermare i migranti e i traffici illegali.

Moltiplicando gli annunci e le dichiarazioni altisonanti, Trump è diventato padrone delle notizie e dell’agenda politica globale (e nazionale), impedendo ai suoi avversari di organizzarsi o di provare a reagire efficacemente. Ma al di là delle tattiche d’urto, sembra emergere una chiara strategia in politica internazionale, volta a marginalizzare o addirittura a distruggere gli spazi di negoziazione, mediazione e cooperazione multilaterali (il sistema delle Nazioni Unite e le altre organizzazioni internazionali), riportando al centro delle relazioni internazionali le relazioni bilaterali tra Stati, l’uso della coercizione (militare o economica) e le aree di influenza delle grandi potenze.

Le Nazioni Unite furono in origine un’iniziativa concepita e diretta dagli Stati Uniti: su istruzioni di Roosevelt, il Dipartimento di Stato iniziò a preparare piani segreti per il dopoguerra già nel 1939, poco dopo l’invasione nazista della Polonia. A partire dal 1942, Roosevelt iniziò a propagandare l’idea dei “quattro gendarmi” che, dopo la fine della guerra, avrebbero garantito la pace nel mondo: i “quattro grandi” erano allora gli Stati Uniti, la Gran Bretagna, l’Unione Sovietica e la Cina. Quando le Nazioni Unite furono finalmente create alla conferenza di San Francisco (aprile-giugno 1945), la cosiddetta Guerra Fredda non era ancora all’ordine del giorno e l’obiettivo della nuova organizzazione era essenzialmente limitato a “salvare le generazioni successive dal flagello della guerra”. 
Nel corso dei decenni, attorno al Segretariato dell’ONU è cresciuto un groviglio di decine di agenzie, fondi e programmi specifici, il numero dei Paesi membri è passato dagli originari 51 agli attuali 193 e la portata del sistema delle Nazioni Unite si è notevolmente ampliata, diventando al contempo più ambiziosa. 

 

Multilateralismo vs estrema destra

Con l’espansione delle organizzazioni multilaterali, in particolare dalla fine della Guerra Fredda, è sempre più evidente il divario tra la pratica del multilateralismo e il progetto autoritario di società che Trump e altri leader di estrema destra come l’argentino Javier Milei, l’indiano Nerendra Modi e l’ungherese Viktor Orbán difendono. 

In generale, il progetto multilaterale è cosmopolita e socialmente progressista; sostiene la promozione della parità di genere, dei diritti sessuali e riproduttivi, dei diritti LGBTQIA+, della mobilità umana globale, dello sviluppo sostenibile e di una transizione economica verde per combattere la crisi climatica. A questa idea di progresso in termini di sviluppo, inclusione, libertà, diritti e democrazia si contrappone l’aspirazione al ritorno a chiare gerarchie sociali, razziali e geografiche e a un dominio patriarcale incontrastato, con la famiglia tradizionale e la religione come pietre angolari dei progetti nazionali, e nazionalisti.

La visione del mondo dell’estrema destra è in diretto conflitto con uno dei principali pilastri del sistema di governance globale del secondo dopoguerra: la cooperazione tra gli Stati membri all’interno del sistema delle Nazioni Unite e di altre organizzazioni regionali e internazionali.

La visione del mondo dell’estrema destra è in diretto conflitto con uno dei principali pilastri del sistema di governance globale del secondo dopoguerra: la cooperazione tra gli Stati membri all’interno del sistema delle Nazioni Unite e di altre organizzazioni regionali e internazionali. Il principio alla base di questa collaborazione è che una perdita relativa, reciprocamente concordata e pienamente negoziata della sovranità nazionale è necessaria per affrontare le sfide globali (come la crisi climatica) e raggiungere beni pubblici internazionali e obiettivi condivisi (come gli Obiettivi di sviluppo sostenibile promossi dalle Nazioni Unite). La politica “America First” di Trump ignora questa profonda interdipendenza in modo tanto grottesco quanto pericoloso. 
In termini pratici, l’azione diplomatica dei governi nazionali guidati dall’estrema destra si è concentrata sulla creazione di ostacoli a questioni o progetti specifici (come l’uguaglianza di genere o l’eliminazione graduale dei combustibili fossili) o sul tentativo di rimodellare interi settori del sistema multilaterale ritenuti contrari ai valori morali conservatori o a una visione ristretta degli interessi nazionali.

La prima presidenza di Trump (2017-2021), come il governo di Jair Bolsonaro in Brasile (2019-2022), è stata piuttosto esitante nel suo attacco alle istituzioni democratiche nazionali e al sistema multilaterale. Sia Trump che Bolsonaro hanno esitato cioè tra il rispetto delle procedure e delle norme stabilite e il tentativo di recuperare e stabilire nuove regole in linea con la loro visione autoritaria e reazionaria. I tentativi di rottura radicale, sia a Washington che a Brasilia, si sono verificati solo al momento della transizione alla normalità democratica e sono stati vanificati. 

Il presidente argentino Javier Milei

 

La motosega

Tornato alla Casa Bianca, Trump ha metaforicamente brandito la motosega brandita da Milei in Argentina, questa volta deciso a distruggere interi settori dell’apparato statale e a non lasciare alcuna regola, nazionale o internazionale, che limiti le sue azioni. Non ci sarà dialogo né gradualità nell’attuazione del suo piano di ritorno all’era del brutale unilateralismo. 

Nelle relazioni bilaterali con Paesi considerati più piccoli o meno minacciosi, una serie di minacce – tra cui l’imposizione di tariffe e sanzioni – sono già emerse come lo strumento preferito dalla nuova amministrazione statunitense per esercitare il potere. L’atteggiamento brusco di Trump nei confronti della tentata risposta della Colombia alla deportazione di migranti illegali a bordo di aerei militari è il segno distintivo di questa nuova era: il Paese è stato minacciato di dazi e sanzioni se non avesse soddisfatto le richieste di Washington. Il presidente Gustavo Petro ha fatto rapidamente marcia indietro. Lo stesso è accaduto a Panama, meta della prima missione internazionale del nuovo Segretario di Stato americano, Marco Rubio. Per placare Trump e le sue minacce di rioccupare il Canale, il 3 febbraio il presidente José Raul Mulino ha annunciato che il Paese si sarebbe ritirato dalle “Nuove vie della seta”, il gigantesco piano di investimenti infrastrutturali globali promosso da Pechino. 

Nelle relazioni bilaterali con Paesi considerati più piccoli o meno minacciosi, una serie di minacce – tra cui l’imposizione di tariffe e sanzioni – sono già emerse come lo strumento preferito dalla nuova amministrazione statunitense per esercitare il potere.

Tuttavia, il tono cambia quando si tratta di negoziare con la Russia e la Cina. Donald Trump ha già mostrato una certa simpatia per la posizione russa sull’invasione dell’Ucraina, ha dichiarato che non avrebbe permesso l’inizio del conflitto se fosse stato presidente nel 2022 e ha annunciato che gli Stati Uniti stavano parlando “molto seriamente” con la Russia con l’obiettivo di “porre fine alla guerra”. Vladimir Putin ha ricambiato il favore riprendendo la teoria del complotto secondo cui l’elezione di Joe Biden sarebbe stata una frode. “Abbiamo sempre avuto relazioni commerciali, pragmatiche e di fiducia con l’attuale Presidente degli Stati Uniti”, ha detto Putin il 23 gennaio in un’intervista alla televisione pubblica russa. “Non posso non essere d’accordo con lui sul fatto che se fosse stato presidente, se non avessero rubato la sua vittoria nel 2020, la crisi scoppiata in Ucraina nel 2022 si sarebbe potuta evitare”.  
Lo stesso giorno, il 23 gennaio, Trump ha annunciato in una videoconferenza per la comunità imprenditoriale del World Economic Forum di Davos che potrebbe cercare di negoziare un nuovo accordo sul controllo degli armamenti con Vladimir Putin ed eventualmente con la Cina. 

In realtà, è improbabile che la Cina accetti tali negoziati finché il suo sviluppo nucleare non avrà raggiunto un livello paragonabile a quello degli Stati Uniti e della Russia, il che potrebbe richiedere fino a 20 anni. Fino ad allora, possiamo aspettarci un accordo bilaterale tra Washington e Mosca. Tanto più che, per il momento, la Cina è un potente avversario sul fronte economico, più che su quello militare. Inoltre, anche sulla questione dei dazi, Trump ha agito più delicatamente con la Cina che con Messico e Canada. Ha annunciato una tassa aggiuntiva del 10% sulle importazioni di prodotti cinesi. La Cina, da parte sua, ha risposto che presenterà un reclamo contro gli Stati Uniti presso l’Organizzazione mondiale del commercio (OMC) e che prenderà “contromisure”. La Cina sta così dimostrando pubblicamente di voler preservare almeno alcune delle regole del multilateralismo che sono state minate da Donald Trump. 

 

Il ritorno della geopolitica

La posizione di Trump nei confronti delle altre grandi potenze sembra indicare una ricerca di negoziazione delle sfere di influenza, simile ai negoziati del XIX secolo tra i Paesi coloniali europei, o tra le potenze vincitrici della Seconda guerra mondiale alla conferenza di Yalta e per tutta la durata della Guerra fredda. 

Il “ritorno della geopolitica” al centro delle relazioni internazionali è stato discusso da esperti di potere come Stefano Guzzini sin dalla fine della Guerra Fredda, più di 30 anni fa. Oggi, tuttavia, sta assumendo una nuova importanza, perché questa visione della politica come rivalità delle potenze sui territori o per i territori prevale su altri modi di organizzare le relazioni internazionali, come le norme o i valori condivisi. Allo stesso modo, la geoeconomia accompagna la competizione territoriale con conflitti per l’egemonia tecnologica, produttiva e commerciale. In questo contesto, l’equilibrio e la stabilità possono essere raggiunti attraverso la deterrenza, con una dimostrazione di forza militare e nella misura in cui le maggiori potenze negoziano (o rinegoziano) vecchie e nuove zone di influenza. 

Durante la Guerra Fredda, la crisi dei missili di Cuba (1962) e l’accordo sulla necessità di evitare a tutti i costi la guerra nucleare finirono per generare un certo rispetto per le zone di influenza sovietiche e americane; all’epoca, la Cina era un attore marginale nella lotta per la supremazia globale. 
Ma l’aggressività dell’estrema destra trumpiana non è arrivata all’improvviso. In Ucraina e in Crimea, come in precedenza in Iraq, Libia e Kosovo, l’uso unilaterale della forza aveva già riaperto un vaso di Pandora che era stato bene o male chiuso per decenni. 

Gli Stati hanno ancora una volta utilizzato le loro macchine militari sulla base di calcoli politici più o meno miopi o cinici, senza fare riferimento alle istituzioni multilaterali ed evitando negoziati preliminari che tentano prima di tutto di esaurire tutte le possibili soluzioni diplomatiche ai conflitti latenti. L’invasione dell’Ucraina ha evidenziato ancora una volta l’incapacità del sistema multilaterale di rispondere alle minacce alla sicurezza e al diritto internazionale quando sono provocate dalle azioni di una delle potenze nucleari con un seggio permanente e un diritto di veto nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.
Il comportamento di queste potenze si riflette anche negli atteggiamenti e nelle azioni di Stati meno influenti – da Israele all’Etiopia, dall’Arabia Saudita al Ruanda – che non esitano a usare le armi contro i Paesi vicini, confidando nell’impunità garantita dalla forza e dalla protezione politica offerta da alcuni dei cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza.

 

Giancarlo Summa è stato direttore della comunicazione delle Nazioni Unite in Brasile, Messico e Africa occidentale. Tra i fondatori dell’Istituto latinoamericano per il multilateralismo (ILAM) di Rio de Janeiro, sta preparando una tesi sulla destra radicale in America Latina presso l’École des hautes études en sciences sociales (EHESS) di Parigi.

Monica Herz è professoressa ordinaria presso l’Istituto di relazioni internazionali della Pontificia Università Cattolica di Rio de Janeiro (PUC-Rio). Ha coordinato il progetto MUDRAL (Multilateralism and the Radical Right in Latin America) e fa parte dell’ILAM.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *