Scuola-caserma? No, scuola-fabbrica. A colloquio con gli studenti del Caravillani
Un incontro con alcuni studenti del liceo artistico Caravillani a Roma per parlare di una scuola che promuove sempre meno la discussione, appellandosi al mero rispetto delle regole per evitare sanzioni. Una filosofia veicolata anche dalla crescente presenza di forze dell’ordine in aula.
Hanno occupato a metà gennaio il loro istituto, in ritardo rispetto all’abituale ondata di occupazioni che di solito si conclude prima delle vacanze di Natale. E nel documento che spiega le ragioni di questa azione hanno inserito un intero paragrafo alla “presenza sempre più costante delle forze dell’ordine e delle forze armate” in aula, una militarizzazione della scuola che passa “anche attraverso progetti e visite didattiche”. Per approfondire l’argomento incontro un gruppo di studenti e studentesse del liceo artistico Caravillani in un bar di Monteverde, il quartiere di Roma che li ospita.
“Dove andremo?”
Prima mi chiedono di parlare brevemente dei problemi più generali dell’istituto. Il piano di dimensionamento annunciato dalla Regione Lazio alla vigilia di Natale, che ha suscitato l’opposizione di studenti e sindacati, riguarderà 23 scuole, di cui 10 superiori, al di sotto dei 900 allievi, che verranno accorpate. “Noi siamo stati abbinati al Dante Alighieri, un classico di Prati, 800 studenti. E siccome siamo meno di 600, loro saranno la sede centrale e noi la succursale”. Peraltro la sede principale del Caravillani, in Piazza Risorgimento, è inagibile dal 2016 per problemi sismici, per cui oggi l’artistico è ospite di una struttura privata in Viale di Villa Pamphili, insieme a un centro antiviolenza e a una sinagoga. “L’anno scorso – raccontano gli studenti, – abbiamo visto un video di Gualtieri su Tik Tok. Prometteva di eseguire i lavori e riportarci nell’edificio entro il 2025, ma ora con l’accorpamento non sappiamo come andrà a finire”.
Preoccupazioni che dalla mera collocazione fisica dei locali sconfinano nella didattica perché, dicono gli studenti, ci sono tagli anche agli organici dei professori e tra questo e l’accorpamento “potrebbero arrivare docenti di materie che in un liceo artistico sono ‘complementari’, che non conoscono il nostro tipo di scuola”, perché “Al classico è chiaro che materie come italiano e matematica vengono insegnate diversamente”.
“Un approccio solo repressivo”
Dai docenti di italiano e matematica ai “docenti in divisa”. Innanzitutto, precisano: “Noi non chiediamo che la polizia resti fuori dalla scuola. Ma pensiamo che, soprattutto su certi argomenti sia necessario coinvolgere anche altre figure”. Un esempio concreto? “I corsi sul bullismo e il cyberbullismo: la chiave utilizzata dagli agenti è la semplice criminalizzazione di quei comportamenti. Non ci dicono: ‘Non è giusto bullizzare i compagni perché bisogna rispettarli’, ma che se lo facciamo saremo puniti. Del resto – aggiungono all’unisono – occuparsi dei ragazzi non è il loro lavoro, semmai servirebbero psicologi, educatori, insomma figure dotate di competenze specifiche.
Lo confermano diversi episodi. “Nella nostra classe ci hanno fatto vedere un video che riguardava più il tema dell’educazione sentimentale, ma poi non sono stati in grado di spiegarlo”, racconta una ragazza. Oppure “Siamo andati con la classe a un concerto dell’Orchestra dei carabinieri e uno di loro, parlando con uno studente gli ha raccontato che lui “ha conquistato sua moglie fischiandole, ma che noi non dobbiamo fare queste cose”. Una battuta che per gli studenti è decisamente fuori luogo.
Poi ci sono i corsi-trabocchetto: gli agenti vengono chiamati per parlare di un argomento, ma spesso escono dal seminato. “Invece di concentrarsi sul tema ufficiale ci dicono che occupare la scuola è un comportamento ‘socialmente pericoloso’ e che si corrono dei rischi legali. Lo fanno soprattutto con quelli delle prime classi, che ovviamente si sentono intimiditi”. Un caso o una strategia? “Una volta la scuola ci ha portato al Foro Italico. Ufficialmente era per la Giornata dello Sport, ma quando siamo arrivati lì era pieno di stand delle forze dell’ordine e dei militari, macchine della polizia e cani antidroga”, racconta un altro.
Ma i rappresentanti degli studenti non sollevano la questione? “Certo, in Consiglio di Istituto hanno fatto presente il nostro disagio e chiesto, appunto, di coinvolgere altre figure. La risposta è stata che ci penseranno. Ma un rappresentante dei genitori ha ribattuto che la presenza della polizia è utile perché dobbiamo sapere a quali conseguenze andiamo incontro se violiamo la legge”.
E i professori? Nel personale scolastico, docenti e collaboratori, mi spiegano, convivono mentalità diverse. “Alcuni professori capiscono le nostre ragioni, ma non intervengono. Altri cercano in qualche modo di sostenerci”. Per altri ancora invece sono cose che decide la scuola e quindi “ci dicono di farci gli affari nostri”.
Scuola-caserma o scuola-fabbrica?
L’idea che non si tratti di episodi isolati o casuali, ma che dietro ci sia una logica legata al contesto sociale e politico più generale di un periodo segnato dal “ritorno della guerra” suscita risposte contrastanti, ma non troppo.
“Nella mia classe ho assistito a una discussione tra un mio compagno e una professoressa. Lui cercava di esporre la sua opinione in modo abbastanza pacato, lei invece era agitata e ha concluso che in classe lei è il generale e gli studenti i soldati”. A volte addirittura si ha l’impressione che “I professori siano l’esercito della presidenza: riferiscono tutto ciò che succede in classe e in direzione opposta fanno filtrare i messaggi che arrivano dal dirigente scolastico, ad esempio dicono agli studenti ‘non occupate’ e li intimidiscono”.
Sono episodi e osservazioni ricorrenti nei colloqui con gli studenti e tracciano un’immagine che a ogni incontro diventa sempre più nitida: una scuola che più che a sviluppare la coscienza critica e la discussione tende ad affrontare i problemi in termini amministrativi: ci sono delle regole, vanno applicate. Punto. “Prima di arrivare al liceo pensavo che la scuola e gli insegnanti mi avrebbero aiutato ad aprire la mia mente, invece c’è una censura costante”, racconta una studentessa. “A volte abbiamo l’impressione che anche i professori in classe siano preoccupati di come parlano. Conosco un professore di filosofia di un’altra scuola, che ha parlato di politica in casse, ma senza indirizzare gli studenti verso una particolare ideologia o parte politica, eppure se n’è dovuto andare”. Uno studente conferma: “Qui da noi c’era una professoressa che ci aiutava tantissimo, io mi ero anche confidato con lei e l’anno dopo non è stata riconfermata. Da allora l’ho incontrata poi più volte in piazza”. Un clima, quello descritto dagli studenti, in cui “tutte le volte che il discorso si avvicina a un tema delicato gli insegnanti ci tengono a puntualizzare che ‘non stanno parlando di politica’”. Del resto di tutti i murales fatti dai ragazzi durante l’occupazione sono stati cancellati solo la scritta “antifa” e il “Quarto stato”, perché “sono un messaggio politico”.
Per un altro studente “Parlare di scuola-caserma è un po’ azzardato. Ma certo c’è la volontà di indirizzare la mentalità degli studenti verso la logica del ‘Non devi fare questo, sennò…”, spesso, peraltro, con l’effetto opposto, perché così si finisce piuttosto per suscitare curiosità per i comportamenti censurati”. “Io”, prosegue, “la scuola la sento più come una fabbrica: ci preparano a lavorare senza avere un pensiero nostro. Così non formi una persona, ma una cosa che lavora”.
Una situazione drammatica descritta con parole semplici, che forse lasciano ancor più il segno. Del resto non c’è di che stupirsi. Le riforme a base di autonomia scolastica e di aziendalizzazione portate avanti da governi di ogni colore alla fine hanno prodotto esattamente ciò che erano destinate a produrre: presidi trasformati in dirigenti-manager, costretti a barcamenarsi nel “mercato dell’istruzione”, a competere con altre scuole contendendosi studenti e famiglie, e con risorse sempre più limitate, ma allo stesso tempo dotati di un potere un tempo sconosciuto, esercitato spesso con piglio più autoritario che autorevole sugli studenti, ma anche su un corpo docente sempre più precario, soggetto a scelte discrezionali da parte della stessa dirigenza, scettico nei confronti del sindacato (non immune da colpe) e dunque spesso più incline alla scelta individuale del quieto vivere.
Il processo di mutazione, per fortuna, non è ancora completato né privo di contraddizioni. A Roma alla preside-sceriffo del Virgilio, che convoca una manifestazione davanti alla Prefettura per protestare contro i suoi studenti che occupano, fa da contraltare la preside del Liceo Manara, che a gennaio ha liquidato la richiesta leghista di ispezionare la scuola per “accertare i danni dell’occupazione” e, pur criticando l’iniziativa degli studenti, ha precisato che l’Istituto aveva già provveduto a rimediare spendendo poche migliaia di euro, una parte dei quali per sanare problemi preesistenti.
Ma è una mutazione che corre rapida e investe non solo studenti e personale scolastico, ma un’intera società, incluso un mondo del lavoro a cui oggi, sempre più insistentemente, si chiede, così come agli studenti, di applicare limitarsi ad applicare le regole. Un amico che negli anni Novanta frequentò l’Accademia di Marina di Livorno mi raccontava che una delle risposte ricorrenti alle domande “impertinenti” degli allievi ufficiali era: “Ciò che non è logico è formativo”. Siamo ancora in tempo per scongiurare l’adozione della stessa filosofia come motto nazionale.