17 Luglio 2025

A cosa servono le presentazioni di libri? (Spoiler: non solo a vendere)

La riflessione di un libraio: leggere può essere, e forse deve essere, un gesto collettivo. E ogni presentazione è un piccolo tentativo di dare corpo a questa collettività. Di renderla visibile, possibile, concreta.

Diciamolo subito, senza girarci intorno: le presentazioni di libri devono servire a vendere? O potrebbero – anzi, dovrebbero – essere l’innesco per qualcos’altro?
Non è una domanda teorica per addetti ai lavori in cerca di alibi. È una questione concreta, con implicazioni economiche, certo, ma anche – e soprattutto – culturali, relazionali, quasi esistenziali. Perché dietro ogni incontro con un libro c’è, più o meno consapevolmente, un’idea di mondo.

Sì, il numero di copie vendute conta. Sì, è un indicatore cruciale, soprattutto se paghi affitti, bollette, collaboratori. Ma se tutto si esaurisce in un foglio Excel, allora qualcosa sfugge. Anzi, si perde proprio l’essenziale: l’incontro, il racconto, il passaggio di parola. E non prendiamoci in giro: se misuriamo il successo di una presentazione solo con la calcolatrice, scopriamo che le serate più “profittevoli” non coincidono quasi mai con quelle dedicate ai libri che più amiamo (parlo da libraio), né tantomeno con quelle in cui tu, amico scrittore, sei protagonista. A meno che tu non viva stabilmente tra i piani alti delle classifiche o abbia un seguito social da influencer.

Il libro come innesco, non come traguardo. Per me, le presentazioni non sono il capolinea dei libri, ma un punto di rilancio. Una stazione di partenza. Sono occasioni per accendere una scintilla, per far entrare il libro in un circuito di parola, per lasciarlo sedimentare nella mente di chi ascolta.
Non sono il capolinea del bilancio, il redde rationem del numero di scontrini. Anche perché non è detto che il libro venga comprato sul momento. Magari il lettore tornerà dopo giorni o settimane. Magari chi lo ha acquistato ne parlerà a qualcuno, altri lo cercheranno in biblioteca, lo compreranno su Amazon (ahi), lo regaleranno o preferiranno prenderlo in un’altra libreria. Magari da quell’incontro nascerà un gruppo di lettura, un invito a scuola, un altro evento.

Chi pretende tutto e subito, chi misura il valore in tempo reale e in centimetri di visibilità, ha già accettato un’idea di mondo fondata su conflitto, performance e rendita immediata. Scelte legittime, per carità. Ma almeno evitiamo di stupirci quando il mercato si comporta… da mercato. Non possiamo invocare le regole del profitto solo quando ci fanno comodo (tipo: “Ma quanto andavano bene le presentazioni quando c’era la fila fuori, eh?”).

Se è semina, cambia tutto. Se invece accettiamo che una presentazione possa essere anche solo un momento di semina – e dico “solo” con ironico affetto – allora cambia lo sguardo. E no, non significa fare i romantici col portafoglio altrui. Non sono indifferente allo spreco di tempo, energie e denaro, miei e altrui. Ma mi interessa sapere che tipo di relazione vogliamo costruire attorno ai libri.

È anche il momento, per chi fa i libri (ciao editori), di dimostrare che tutte le iperboli delle bandelle, tutte le emoji e le call to action sparate su Instagram, non sono solo rumore di fondo e inquinamento visivo. Perché a volte capita che una serata andata “male” – poca gente, nessuna vendita – lasci invece una traccia profonda in chi ha partecipato. E, altre volte, una sala piena e decine di copie vendute si traducono in una nuvola di selfie e scontrini, e via, tutto finito. Il pubblico non deve.

C’è poi, per me, un enorme equivoco riguardo il pubblico. Il pubblico, la gente, i clienti, i lettori non hanno alcun obbligo. E fanno bene, spesso, a non esserci quando sentono da lontano l’odore di muffa o quando si stancano di vedere un saltimbanco che si tira le pose mettendo in secondo piano il vero oggetto-soggetto della presentazione: il libro. Non l’autore. Il libro. Non il moderatore o il libraio che magari manco lo hanno letto. Il libro.

Non è colpa del pubblico se non viene. È un segnale. E come tale va interpretato. Non sempre ha una spiegazione chiara, ma almeno la domanda va posta: cosa è mancato? Io continuo a credere in un’altra via. Quella in cui ogni incontro diventa un’occasione per chi c’è. Anche se sono pochi. Anzi, soprattutto se sono pochi. Perché non serve riempire la sala – anche se, certo, sarebbe bello (e maledetto il quotidiano locale che manco un trafiletto, eh?) – ma riempire di senso il tempo condiviso. Un gesto collettivo. Far sentire chi esce dalla libreria – con o senza libro sotto braccio – parte di qualcosa di vivo, di non ovvio.
Perché leggere può essere, e forse deve essere, un gesto collettivo. E ogni presentazione è un piccolo tentativo di dare corpo a questa collettività. Di renderla visibile, possibile, concreta.

Emiliano Longobardi è libraio (nella libreria Azuni di Sassari), sceneggiatore e autore di fumetti.

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