14 Novembre 2025

Come disinnescare la “Grande Merdizzazione”: Cory Doctorow e la rivolta contro l’internet “marcio”

Stanchi di scorrere tra risultati pieni di spazzatura, annunci generati dall’intelligenza artificiale e link a prodotti fotocopia?
Cory Doctorow, l’autore e attivista che ha coniato il termine “enshittification” spiega cosa è andato storto con Internet – e cosa possiamo fare per rimediare. Un riassunto del saggio uscito sul quotidiano “The Guardian“.

 

Screenshot

Amazon non è più quello di una volta

Un tempo, Amazon era la promessa di Internet fatta realtà: prezzi bassi, consegne rapide, recensioni affidabili e un catalogo sconfinato. Oggi, invece, cercare qualcosa su Amazon è diventato un’esperienza frustrante.
I risultati di ricerca sono invasi da prodotti di bassa qualità, cloni quasi identici, annunci sponsorizzati e marchi che sembrano tutti uguali. Perfino le recensioni – un tempo il cuore del sistema di fiducia della piattaforma – appaiono sempre più false o manipolate.
Gli utenti, come i venditori, ne escono stremati. I primi cercano di orientarsi in un labirinto di offerte e trappole pubblicitarie; i secondi combattono contro un algoritmo opaco che privilegia chi paga di più o chi si adegua ai diktat del colosso.

 

L’era della “enshittification”

Doctorow chiama questo processo enshittification, un termine che potremmo tradurre come “marcescenza digitale” o “degradazione progressiva”. È la fase in cui una piattaforma online, dopo aver conquistato gli utenti con convenienza e servizi impeccabili, inizia lentamente a peggiorare per massimizzare i profitti degli azionisti.

In principio, le piattaforme mettono al centro l’utente: rendono tutto semplice, veloce, economico. Poi, una volta che la concorrenza è stata eliminata, spostano l’attenzione verso i venditori e gli inserzionisti, spremendo il più possibile da chi vuole visibilità.
Infine, nel tentativo di soddisfare gli investitori, finiscono per danneggiare entrambe le parti – utenti e venditori – distruggendo proprio ciò che le aveva rese grandi. “È così che muoiono tutte le piattaforme”, spiega Doctorow. “All’inizio sono buone per gli utenti, poi per i loro partner commerciali, e alla fine solo per sé stesse”.

 

La spirale discendente

Oggi, cercare su Amazon “custodia per iPhone” o “lampadina smart” significa imbattersi in centinaia di risultati quasi indistinguibili: nomi generici, marchi sconosciuti, descrizioni ripetute.
Molti di questi prodotti provengono da fabbriche che producono gli stessi articoli per più marchi, con piccole variazioni di prezzo o packaging. È la conseguenza diretta del modello di business di Amazon: un ecosistema che incoraggia la replica e la saturazione, perché ogni copia genera commissioni e pubblicità pagata.

Ma non è solo una questione di qualità: è anche una questione di fiducia. Quando tutto sembra uguale, quando le recensioni appaiono sospette e la trasparenza sparisce, l’esperienza dell’utente si deteriora.
Amazon non è più un luogo dove “trovare tutto”, ma un mercato rumoroso dove bisogna lottare per distinguere l’originale dal falso, il valore dal rumore.

 

Il ciclo del peggioramento

All’inizio, Amazon è riuscito a creare un ecosistema di fiducia: recensioni autentiche, suggerimenti personalizzati, un motore di ricerca che funzionava davvero. Il suo obiettivo era chiaro: attirare il maggior numero possibile di utenti offrendo convenienza, trasparenza e un’esperienza impeccabile.

Poi, una volta conquistato quel pubblico, ha iniziato a cambiare le regole del gioco.
I risultati di ricerca, prima ordinati in base alla pertinenza, hanno cominciato a privilegiare chi pagava per essere visibile. Gli spazi pubblicitari, prima marginali, si sono moltiplicati fino a occupare metà della pagina.
E le commissioni imposte ai venditori indipendenti – che rappresentano oltre il 60% del fatturato del marketplace – sono aumentate a ritmi vertiginosi.

Amazon ha così trasformato la fiducia in un bene da monetizzare.
L’utente non è più il cliente, ma il prodotto da vendere ai venditori.
E i venditori, a loro volta, sono diventati dipendenti da un’infrastruttura che li controlla in ogni aspetto: prezzi, logistica, pubblicità, persino la visibilità delle loro stesse inserzioni.

Cory Doctorow in una foto del 2019

 

Dalla qualità alla quantità

Questa dinamica ha creato un effetto domino.
I venditori, costretti a investire sempre più in pubblicità per non scomparire nei risultati, hanno iniziato a comprimere i costi di produzione.
Il risultato? Prodotti sempre più scadenti, marchi generici, descrizioni gonfiate da parole chiave, immagini clonate.

Amazon, nel frattempo, guadagna comunque: che un prodotto sia buono o pessimo, l’importante è che si venda. Ogni clic genera commissioni e dati preziosi. È un sistema che premia il volume, non la qualità.
E più il mercato si satura di spazzatura digitale, più è necessario pagare per farsi notare.

“È un gioco truccato”, scrive Doctorow, “ma Amazon è riuscita a farlo sembrare inevitabile. Tutti ne vedono i difetti, ma nessuno può permettersi di andarsene”.

 

La prigione dell’ecosistema

Amazon non è solo un sito di e-commerce. È un’infrastruttura di Internet. Chi vende deve affidarsi a Fulfilled by Amazon per la logistica, a Amazon Ads per la visibilità, e ad Amazon Prime per non essere penalizzato dagli algoritmi. Il risultato è che il marketplace funziona come un sistema chiuso: più si entra, più diventa difficile uscirne.  Doctorow lo descrive come una “trappola perfetta del capitalismo digitale”.

Nel frattempo, i piccoli marchi indipendenti scompaiono, i produttori originali vengono copiati, e il colosso può lanciare i propri prodotti Amazon Basics sulla base dei dati di vendita dei concorrenti.
È un modello che non si limita a dominare: colonizza.
E la cosa più inquietante è che ha funzionato così bene da diventare un modello imitato da tutto l’Internet contemporaneo, dai social network ai motori di ricerca.

 

Dall’Amazonizzazione all’Internet tossica

L’“enshittification” non è solo un problema di Amazon. È un virus che ha contagiato tutto il web.
Le piattaforme digitali – da Facebook a Google, da TikTok a Spotify – hanno seguito la stessa traiettoria: prima conquistano l’utente con servizi gratuiti e utili, poi trasformano quell’attenzione in pubblicità, infine spremono tutto ciò che resta per alimentare il profitto.

Così Internet, che era nata come spazio di libertà e scoperta, si è trasformata in un’enorme fabbrica di engagement.
Gli algoritmi non servono più a collegarci con ciò che cerchiamo, ma a tenerci dentro il recinto più a lungo possibile.

 

Le radici dell’“enshittification”

Per capire perché Internet — e Amazon in particolare — è diventata così tossica, Doctorow invita a guardare non solo alle aziende, ma anche alle leggi che le hanno rese possibili.
Il disastro, dice, nasce da una precisa ideologia economica: quella del “consumer welfare standard”, lo standard del benessere del consumatore.

Fino agli anni 70, le leggi antitrust statunitensi trattavano le grandi imprese come pericoli per la democrazia. Non importava se un’azienda offriva prezzi bassi: se diventava troppo grande, veniva divisa, perché il potere concentrato — economico o politico — era considerato un rischio per tutti. Poi arrivò un nuovo paradigma: quello secondo cui un monopolio non è un problema finché i prezzi restano bassi.
Un’idea apparentemente innocua, ma devastante. Perché ha permesso a giganti come Amazon, Google e Facebook di crescere senza limiti, finché potevano dire di “favorire il consumatore”. “Da quel momento”, scrive Doctorow, “la legge non ha più guardato al potere, ma ai prezzi. E così ha lasciato che il potere diventasse illimitato”.

 

Il meccanismo della dipendenza

Amazon è il prodotto perfetto di quella ideologia.
Il suo sistema – il cosiddetto “flywheel”, la “ruota volante” – funziona così:

  1. Attira utenti con prezzi bassi e grande scelta.

  2. Questo porta più venditori sulla piattaforma.

  3. Più venditori attirano più clienti, rendendo Amazon indispensabile.

  4. Quando tutti sono dentro, Amazon inizia a spremere: più commissioni, più pubblicità, meno libertà.

È un ciclo che si autoalimenta, e che fa sembrare ogni fase successiva “inevitabile”. Ma in realtà, è una strategia costruita su una forma di dipendenza collettiva. Gli utenti non se ne vanno perché è comodo. I venditori non se ne vanno perché è necessario. E lo Stato non interviene perché, in teoria, “i prezzi sono bassi”. Un equilibrio perfetto, ma solo per chi lo ha creato.

 

Dal monopolio all’ecosistema chiuso

Doctorow paragona Amazon a una malattia sistemica del capitalismo digitale: un virus che trasforma le piattaforme da strumenti utili in organismi che si nutrono dei propri utenti.

Il suo dominio non si basa solo sui prezzi, ma sul controllo delle infrastrutture:

  • la logistica (Fulfilled by Amazon),

  • la pubblicità interna (Amazon Ads),

  • l’abbonamento (Prime),

  • i contenuti digitali (libri, musica, video).

Ogni servizio diventa una porta che si chiude dietro chi la attraversa. Più si entra, meno vie d’uscita restano. “Amazon ha costruito la sua fortezza un mattone alla volta,” scrive Doctorow, “usando i nostri soldi, la nostra fiducia e la nostra pigrizia come cemento”.

 

Il contagio: quando tutto il web copia Amazon

Il problema, però, non è solo Amazon. Tutti hanno copiato quel modello. Facebook, Google, TikTok, persino Netflix. Tutti hanno adottato la stessa sequenza: prima ti seducono, poi ti vincolano, poi ti spremono.
È un ciclo economico ma anche psicologico, progettato per creare abitudine, dipendenza e rassegnazione.

Le piattaforme hanno imparato che non serve migliorare il servizio se l’utente non può scappare.
E così Internet ha perso la sua logica originaria: l’apertura.

“Oggi il web non è più una rete”, scrive Doctorow, “è un insieme di gabbie comunicanti. Siamo liberi di scegliere quale gabbia ci piace di più”.

 

La fine dell’illusione

La fase finale della “enshittification” è la normalizzazione del peggioramento. Ci abituiamo alla pubblicità, agli algoritmi manipolati, alla spazzatura digitale. Ci convinciamo che “è così per tutti” e che non vale la pena ribellarsi. E questo, per Doctorow, è il vero pericolo: la rassegnazione come forma di consenso. “Il capitalismo delle piattaforme non vince perché è intelligente,” conclude, “ma perché ci convince che non esistono alternative”.

Per Doctorow, la fase terminale della “enshittification” non è un fallimento del sistema digitale, ma il suo compimento. Amazon, Facebook, Google non stanno “crollando”: stanno semplicemente massimizzando il profitto, anche se questo significa peggiorare l’esperienza di tutti. “Amazon guadagna quando sei soddisfatto,” scrive Doctorow, “ma guadagna anche quando sei furioso. I costi li pagano i venditori — e tu”.

Non c’è quindi un incentivo economico a migliorare: il degrado è parte del modello. L’unico modo per cambiare le cose è uscire da quella logica, non sperare che si riformi da sola.

 

La falsa speranza del consumatore virtuoso

Doctorow critica  quello che considera un “mito” diffuso: quello del “votare con il portafoglio”. Comprare in modo etico, scegliere i piccoli produttori, usare piattaforme alternative: tutto questo ha valore simbolico, ma non cambia le regole del gioco. “Non puoi fermare l’enshittification comprando meglio” scrive. “Come non puoi salvare il pianeta differenziando la plastica mentre le multinazionali continuano a inquinare”. Secondo l’autore, il problema non è il comportamento individuale, ma le strutture di potere che hanno reso Internet un oligopolio. E gli oligopoli non si sciolgono con la buona volontà.

 

Le soluzioni: politica, coalizioni, regole

Per invertire il processo, Doctorow propone azioni collettive e politiche:

  1. Vietare i prezzi predatori
    – Le aziende non dovrebbero poter vendere sottocosto solo per eliminare la concorrenza.

  2. Separare i ruoli delle piattaforme
    – Amazon dovrebbe scegliere: o fa da intermediario per i venditori, o compete come produttore. Non entrambi.

  3. Limitare le “junk fees”
    – Oggi Amazon trattiene fino al 50% di ogni dollaro che un venditore guadagna. Serve trasparenza e tetti massimi sulle commissioni.

  4. Abolire le clausole “most favoured nation”
    – Quelle che obbligano i venditori a mantenere gli stessi prezzi ovunque, impedendo di offrire sconti fuori da Amazon.

  5. Sindacalizzare i lavoratori e i corrieri
    – Senza potere contrattuale, la logistica di Amazon rimane una catena di sfruttamento invisibile.

  6. Trattare i risultati di ricerca manipolati come frode
    – Se il primo risultato è un annuncio camuffato da offerta migliore, è pubblicità ingannevole, non un servizio neutrale.

  7. Dalle aziende ai cittadini: ricostruire il web

Doctorow non si limita alla denuncia.
Propone una visione: ricostruire un Internet aperto, interoperabile e resistente alla “spazzatura” digitale.

Vuole un ritorno all’idea originaria del web: un sistema di comunicazione che metta in contatto le persone senza intermediari totalizzanti.
Piattaforme che possano parlarsi tra loro, dati portabili, protocolli comuni.

 

Il punto finale: servono regole, non preghiere

Doctorow cita Martin Luther King Jr.: “La legge non può costringere un uomo ad amarmi, ma può impedirgli di linciare me, e anche questo è importante”. Allo stesso modo, dice, le regole non trasformeranno le multinazionali in enti morali, ma possono costringerle a comportarsi in modo equo, anche solo per paura.

Non possiamo aspettarci che Amazon, Meta o Google “ritrovino la coscienza”: sono organismi collettivi, artificiali, progettati per massimizzare il profitto. Ma possiamo, come società, imporre limiti e pretese di giustizia. “Non puoi fare shopping fuori da un monopolio”, conclude Doctorow, “ma puoi spezzarlo”.

 

Il testo di Cory Doctorow , pubblicato dal Guardian, è tratto dal suo nuovo libro “Enshittification: Why Everything Suddenly Got Worse and What to Do About It” (pubblicato da Verso Books, 2025).

Quando The Guardian ha chiesto un commento, Amazon ha risposto che l’articolo “descrive in modo inaccurato e fuorviante” il suo rapporto con i venditori indipendenti, affermando che “milioni di questi prosperano sulla piattaforma” e che Amazon “offre i prezzi più bassi e la selezione più ampia nel mercato”.

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