La mia prima uscita fotografica fu un fallimento.
Avevo compiuto da pochi mesi 12 anni e con un mio amico, il cui padre aveva un negozio di ottica, decidemmo di andare in giro per Roma a scattare foto. Lui prese il rullino: evidentemente erano ancora i tempi della pellicola. Io sottrassi ai miei genitori la macchina fotografica a telemetro che avevano comprato prima ancora che io venissi al mondo.
Non ricordo di averli mai visti con in mano quell’apparecchio, che invece a me affascinava: le varie ghiere e l’occhio ottico dal fondo scuro mi attraevano irresistibilmente.
La nostra meta era il Centro. Le nostre due coordinate tecniche furono quelle del tempo e del diaframma. Le inquadrature erano secondarie per noi, allora. Come stabilire il tempo di esposizione? In altre parole, quanto tempo l’otturatore doveva rimanere aperto? Con la nostra totale inesperienza pensammo che, se avessimo messo “tempo di posa B”, quindi tenendo premuto il pulsante di scatto a nostro piacimento, non avremmo avuto nessun problema.
È un tipo di soluzione che in realtà si usa quando la macchina è su un cavalletto e per lo più per creare effetti creativi, per esempio le scie luminose delle stelle o dei fari delle macchine.
Con il diaframma ci regolammo con un f/11, un po’ a caso, perché secondo i nostri ragionamenti con la “posa B” avevamo risolto ogni difficoltà, i segreti della fotografia erano alla nostra portata.
Noi però non avevamo un cavalletto.
Alla fine, consegnammo il rullino al papà del mio amico, avrebbe pensato lui allo sviluppo della pellicola e alla stampa. Eravamo curiosi di sapere cosa sarebbe uscito fuori.
Fu un disastro. Ma che avete fatto?, ci chiese il padre del mio amico. Non è venuto niente, sono tutte nere.
Da allora quel fallimento me lo sono portato dietro, tanto da cercare di essere il più invisibile possibile quando scatto una foto, di essere nel nero, in quell’immagine mai venuta fuori dagli acidi della stampa.
Direi che cerco di sbagliare, per capire se ugualmente ne può uscire qualcosa di buono. Un luogo adatto a tutto ciò è la metropolitana, dove le persone sono in transito e in attesa di essere altrove, e quindi lì sotto emerge una parte involontaria che racconta qualcosa di intimo delle persone.
Tutti sono convinti, e giustamente, che il volto dica tanto, che sia rivelatore. È vero, come negarlo: io però con la mia timidezza fallimentare, con il rischio di finire senza uno scatto, mi sono garantito talvolta uno spazio ulteriore di senso, che è quello di riprendere parti apparentemente insignificanti del corpo umano. Per esempio, le spalle delle persone sulle scale mobili. Sono foto che, secondo me, dicono tanto e a cui sono affezionato, arrivo a dire che provo tenerezza per questa spalle che si rivelano all’occhio della mia macchina fotografica “nude”.
Nella metro
La mia prima uscita fotografica fu un fallimento.
Avevo compiuto da pochi mesi 12 anni e con un mio amico, il cui padre aveva un negozio di ottica, decidemmo di andare in giro per Roma a scattare foto. Lui prese il rullino: evidentemente erano ancora i tempi della pellicola. Io sottrassi ai miei genitori la macchina fotografica a telemetro che avevano comprato prima ancora che io venissi al mondo.
Non ricordo di averli mai visti con in mano quell’apparecchio, che invece a me affascinava: le varie ghiere e l’occhio ottico dal fondo scuro mi attraevano irresistibilmente.
La nostra meta era il Centro. Le nostre due coordinate tecniche furono quelle del tempo e del diaframma. Le inquadrature erano secondarie per noi, allora. Come stabilire il tempo di esposizione? In altre parole, quanto tempo l’otturatore doveva rimanere aperto? Con la nostra totale inesperienza pensammo che, se avessimo messo “tempo di posa B”, quindi tenendo premuto il pulsante di scatto a nostro piacimento, non avremmo avuto nessun problema.
È un tipo di soluzione che in realtà si usa quando la macchina è su un cavalletto e per lo più per creare effetti creativi, per esempio le scie luminose delle stelle o dei fari delle macchine.
Con il diaframma ci regolammo con un f/11, un po’ a caso, perché secondo i nostri ragionamenti con la “posa B” avevamo risolto ogni difficoltà, i segreti della fotografia erano alla nostra portata.
Noi però non avevamo un cavalletto.
Alla fine, consegnammo il rullino al papà del mio amico, avrebbe pensato lui allo sviluppo della pellicola e alla stampa. Eravamo curiosi di sapere cosa sarebbe uscito fuori.
Fu un disastro. Ma che avete fatto?, ci chiese il padre del mio amico. Non è venuto niente, sono tutte nere.
Da allora quel fallimento me lo sono portato dietro, tanto da cercare di essere il più invisibile possibile quando scatto una foto, di essere nel nero, in quell’immagine mai venuta fuori dagli acidi della stampa.
Direi che cerco di sbagliare, per capire se ugualmente ne può uscire qualcosa di buono. Un luogo adatto a tutto ciò è la metropolitana, dove le persone sono in transito e in attesa di essere altrove, e quindi lì sotto emerge una parte involontaria che racconta qualcosa di intimo delle persone.
Tutti sono convinti, e giustamente, che il volto dica tanto, che sia rivelatore. È vero, come negarlo: io però con la mia timidezza fallimentare, con il rischio di finire senza uno scatto, mi sono garantito talvolta uno spazio ulteriore di senso, che è quello di riprendere parti apparentemente insignificanti del corpo umano. Per esempio, le spalle delle persone sulle scale mobili. Sono foto che, secondo me, dicono tanto e a cui sono affezionato, arrivo a dire che provo tenerezza per questa spalle che si rivelano all’occhio della mia macchina fotografica “nude”.