Miles Davis lo adorava. Lo diceva apertamente: Sly lo aveva ispirato, lo aveva liberato, lo aveva cambiato. “Bitches Brew” non esisterebbe senza “There’s a Riot Goin’ On”. Miles aveva capito che Sly stava portando la musica nera in un territorio nuovo, crudo, autentico. “Sly è più avanti di tutti”, diceva. E aveva ragione. Quel funk storto, quel groove che sembrava sempre in bilico, ha cambiato tutto. È stato la miccia per Prince, per D’Angelo, per tutta una generazione che ha imparato a suonare sentendo prima cosa c’era sotto la superficie.
Con i Family Stone aveva inventato qualcosa che nessuno aveva mai fatto prima: un funk che era spirituale e carnale, politico e lisergico, collettivo e profondamente personale. Una musica dove ogni elemento – basso, batteria, cori, silenzi – sembrava parlare con voce propria. E lui, Sly, era al centro di quel turbine con la grazia febbrile di un predicatore e la fragilità di un uomo che sapeva quanto può far male cercare di essere se stessi in un mondo che ti vuole diverso. Personalmente, non ho mai ascoltato “Family Affair”, “Everyday People” o “If You Want Me to Stay” senza provare una specie di vertigine. C’è sempre qualcosa che sfugge, una malinconia profonda sotto il ritmo.
È come se Sly ci dicesse: “Puoi anche ballare, ma non dimenticare da dove vieni. E chi sei”.
È come se Sly ci dicesse: “Puoi anche ballare, ma non dimenticare da dove vieni. E chi sei”.
