17 Luglio 2025

“Le date sono indicative”: quando i lavori stradali mandano in panico i romani

“Le date sono indicative”, avvertiva qualche tempo fa su Facebook un amministratore di un municipio di Roma a proposito di una annunciata chiusura stradale per lavori. Ma non possiamo fare una cosa normale, una volta tanto?

Il copione è il seguente. Un giorno torni a casa e trovi uno scenario cambiato: segnaletica verticale provvisoria di divieto di sosta, con i suoi bei sacchi di sabbia pesanti a bloccare i segnali alla base; nastri bianchi e rossi annodati da un palo all’altro con dei fogli di carta appesi. Ti fermi e leggi sulla Determina (orribile neologismo che dalla neolingua burocratica è penetrato nella lingua comune) che il divieto è in vigore dal giorno X e “fino al termine dei lavori”; oppure, con precisione involontariamente comica, “fino al giorno Y”. Talvolta ci mettono pure l’ora.

Tu, e con te il quartiere, entrate nel panico perché i tratti di strada interessati sono estesi e il difficile equilibrio della sosta ne viene fortemente compromesso: si profilano quarantine di minuti di ricerca del parcheggio per chi usa l’auto e torna la sera a casa guidando, e chissà per quanto tempo. Ma per lo più è una stizza contenuta, uno smadonnamento diffuso ma silente, intenso ma puramente rituale.

Non per tutti, a ben vedere. Perché a questo punto la popolazione locale può già essere ripartita in due sottogruppi. Il gruppo 1 è di gran lunga il più numeroso; corrisponde, diciamo, almeno al 95%. Sono quelli che conoscono già il copione e di conseguenza si mettono subito l’anima in pace, perché sono nati per soffrire (un numero non rilevabile di loro aggiunge imprecazioni).
Ma c’è una ristrettissima minoranza, il gruppo 2, che è fatta di quelli arrivati ad abitare in città massimo il mese prima. Tenerissimi, fanno un ragionamento di questo tipo: “E vabbè, ci sarà qualche giorno di disagio ma almeno si fanno i lavori, ce n’era bisogno”. La vicenda, avranno già capito i miei piccoli lettori, prenderà una piega diversa.

Passano i giorni. Si arriva al giorno X e non succede niente. La scavatrice arriverà domani, pensano alcuni. Pochi: sono sempre quelli del gruppo 2, immigrati che non vogliono capire che non stanno più a casa loro e che a casa nostra valgono le usanze nostre e se non gli va bene possono anche andarsene.

Non arriva nessuno. Ma succede l’impensabile (sempre nell’orizzonte di senso del gruppo 2): cade un segnale di divieto. Il simbolo che dovrebbe rappresentare un saldo potere d’interdizione a cui è impossibile opporsi collassa, viene ritrovato riverso. Nessuno sa come e perché. Un altro viene spostato, sempre nottetempo. Ma sono i nastri bianchi e rossi i primi a scomparire. Non tutti insieme, uno dopo l’altro. Ma non del tutto: restano dei nodi di nastro attorno ai pali, a ricordarci qualcosa come un tarlo fastidioso. E con essi i pezzi di carta che dovrebbero costituire l’indicazione certa del comportamento da tenere.
(Del resto quelli erano stati già dissolti progressivamente dalla pioggia, non prima di diventare quasi illeggibili per la percolazione dell’inchiostro. Tutto tende a scomparire, tranne il monito, ormai introiettato, della sanzione).

È quindi verso il quinto giorno che si stabilizza una circostanza in cui appare chiaro che l’amministrazione vuole prenderti per il culo. Semplicemente vuole prendere per il culo, tutto insieme, un intero quartiere.
Io me li vedo, quelli della UO-MSBA (Unità Organizzativa Manutenzione Strade e Beffe Amministrative), lì intorno a un tavolo insieme al titolare dell’impresa appaltatrice… anzi no, al telefono col titolare dell’impresa, come dei piccoli Vendola col portavoce di Riva intercettati dalla mia immaginazione esausta. Si divertono, se la ridono di gusto. “Adesso sai che facciamo?”, fa uno: “ci mettiamo un segnale con la manina a borsa e le dita che si aprono e chiudono attorno all’asse verticale. Sotto ci scriviamo: «paura, eh?»”. E giù le risate. “Cittadino, volevi un punto di riferimento certo? Fottiti! Fai come credi e lo fai a tuo rischio”, fa l’altro di colpo, come se il flusso del cazzeggio, in fondo non privo della sua innocenza – chi non ride delle piccole disgrazie altrui, almeno una volta? – venisse interrotto da un subitaneo irrigidimento in cui il velo del cinismo scopre il volto della pura cattiveria. Per essere poi incalzato da un’altra battuta innocentemente sadica.

Nel frattempo sulla strada, che per tanti è una università e dalla quale tutti impariamo come relazionarci con il mondo, ogni punto di riferimento si è dissolto: i segnali scansati e addossati ai muri, i nastri e i fogli scomparsi. Non vige più la vecchia regola ma è saltata quella che doveva temporaneamente sostituirla. Il vecchio è morto, il nuovo non può nascere e in questo interregno – come disse il filosofo – nasce l’anima de li mortacci loro.

Quando nei film americani dicono “vattene dalla città per un po’ finché non si calmano le acque”, qualsiasi persona razionale pensa a godersi il film e sospende l’incredulità rispetto a un consiglio oggettivamente bizzarro: tu, assassino col mandato di cattura disegnato sulla schiena, se ti fai una vacanza poi potrai tornare come se niente fosse. Però lo stesso spettatore, forte del percorso accademico stradale di cui sopra, trova nella didattica urbana romana un referente reale a questa strana figura cinematografica: in effetti a un certo punto si calmano le acque, è quello che succede sotto casa intorno al sesto o settimo giorno dalla data di inizio lavori stabilita a suo tempo dalla Determina, la quale si è perduta nel tempo come lacrime nella pioggia portando via con sé, pur in relazione elastica, la cogenza del proclamato divieto.

Anche il prezzo dell’ansia e del rodimento di culo, pagato da noi che abitiamo lungo la strada, piano piano si assottiglia come uno sgradevole sciroppo assunto a scalare, fino a che, chi prima chi dopo, ci convinciamo che tutto è tornato com’era e timidamente riprendiamo a piazzare l’auto negli spazi che l’oblio rende di nuovo disponibili. Se ne riparlerà più avanti.
La Determina, sotto amministrazione capitolina di qualsiasi colore, bussa sempre due volte. Se non tre.

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