14 Novembre 2025

Ma noi no

Mio nonno aveva fatto la guerra. L’avevano sopportata, l’ingiustizia, avevano ricostruito, lavorato sodo e adesso godevano della nuova condizione: essere in salvo.

 

Per un po’, prima che ci lasciasse, andai a trovare mio nonno materno.
Mio nonno è stato importante, per un mucchio di cose, ma soprattutto perché mi ha comprato la prima agenda su cui ho scritto racconti, perché ha capito che volevo un quaderno speciale per annotare le cose e ne ha preso uno in città, molto pomposo, con la copertina verde e dei fiori.

In un certo senso mi ha insegnato a dare dignità a quello che faccio, per questo andavo a trovarlo con un quaderno protocollo, senza provare vergogna di parlare, scrivere e stare assieme.

Mio nonno era novantenne e indipendente. Aveva attraversato la seconda guerra e questa esperienza si rifletteva su tutto.
Nel suo modo di fare la spesa, di masticare, di ringraziare il sole che la mattina batteva sul balcone, dove si esponeva diligente a scaldarsi.

Aveva sempre le ginocchia abbronzate per combattere i dolori delle ossa. Le uniche lotte che ingaggiava, adesso, erano contro i malanni.

Quando aprivo il mio quaderno protocollo lo interrogavo sulla sua vita. Lui rispondeva con un filo di voce e io appuntavo tutto. Con lo stesso filo di voce intonava i canti delle truppe e io mi commuovevo fino alle lacrime.

Mi offriva quintali di frutta. “U Beni di dio” . Diceva.

Parte di quelle memorie le ho riportate in un romanzo.

Parlo di lui che torna a piedi dalla Calabria, con gli anfibi, e mia nonna che gli corre incontro col pancione in via Messina Marine.

Mi impressionó soprattutto il suo ricovero per astenia e il fatto che fosse andato in giro per giorni con una bomba a mano nel tascapane o si fosse addormentato sui binari di una galleria per risvegliarsi al fischio del treno.

C’era molto freddo, fango, solitudine e desiderio di calore in quei racconti, atmosfere che avrei ritrovato nel mio adorato Beppe Fenoglio. mischiate alla lingua inepressa degli uomini, alla vicinanza degli animali, a questo vivere esposti alle interperie. scrutando il cielo

Una generazione che aveva fatto il possibile. Che sapeva convivere con quell’orrore. Che centellinava pure il vino, “potrebbe finire questo bene di dio”.

Era la guerra. Diceva. Aveva usato un fucile. Aveva visto correre due fantasmi sull’Aspromonte. ‘Due anime’. mi spiegava, perdute, che si facevano compagnia.

“Poi non ti dico le macerie”. Quelle soprattutto. La conta delle persone e case che mancavano era lunghissima.

L’avevano fatto, l’elenco delle ingiustizie, consapevoli di essere invischiati in qualcosa di più grande “che non sapevamo bene”. L’avevano sopportata, l’ingiustizia, avevano ricostruito, lavorato sodo e adesso godevano della nuova condizione: essere in salvo, loro, i figli, me. I muri delle abitazioni a proteggere.

“Mangia questo bene di dio”.

Adesso, pensavo, non potrebbe mai accadere una cosa simile, la guerra, intendo. Lo sterminio. Lo rassicuravo. Ero piena di convinzioni, saperi e di un paio di pubblicazioni alle spalle che mi davano ragione. Non potrebbe accadere di non sapere. Non saremo così ingenui.

Tu, nonno, credi ai fantasmi e al sole al posto del Voltaren.

Noi no, siamo superiori. Coi social, con la smart TV, con le medicine.
Noi non ci crediamo ai fantasmi. Noi siamo informati.
Noi. Adesso. No.

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