Con “Gadabout Season”, l’erede di Alice Coltrane fonde spiritualità, groove e futuro afroamericano in un’opera intima e audace.
Nel jazz contemporaneo, pochi strumenti sono così carichi di ambiguità e mistero come l’arpa. E Brandee Younger, con Gadabout Season, riesce in una vera impresa: farne il cuore pulsante di una musica che è insieme contemplativa e urbana, spirituale e viscerale. Un album che suona come un diario sonoro di una donna nera in cammino tra passato e futuro, Harlem e l’infinito, Alice Coltrane e i battiti hip-hop che pulsano sui marciapiedi delle metropoli.
Younger non suona soltanto l’arpa, ma la abita e la trasfigura. È la stessa arpa che fu di Alice Coltrane, restaurata e registrata in una camera del suo appartamento newyorkese. E questa scelta non è un dettaglio, si sente dall’intimità calda, quasi domestica, che attraversa l’intero disco. C’è una spiritualità concreta, fatta non di ascese mistiche ma di vita quotidiana, risate complici, cadute e resurrezioni.
L’apertura è già un manifesto: Reckoning si schiude come un’apertura cosmica, un’arpa ampia, sacrale, solcata da vibrazioni elettroniche appena accennate. Poi il viaggio comincia. End Means è uno di quei brani che ti restano sotto la pelle: l’arpa dialoga con il flauto incantato di Shabaka, mentre basso e batteria (Rashaan Carter e Allan Mednard, sodali di lunga data della leader) creano un groove ipnotico e sensuale. È jazz? È soul? È un brano che fluttua tra i generi, come un’aura luminosa.
Il titolo dell’album, Gadabout Season, evoca la leggerezza errante del gaudente moderno. Ma sotto questa superficie scintillante, si coglie una risposta sottile a un dolore non nominato. L’album è nato dopo un anno difficile per Younger, ed è forse per questo che la musica pulsa di una vitalità riconquistata, mai data per scontata. Il brano eponimo (con Makaya McCraven, Joel Ross e ancora Shabaka) è una mini-suite spezzata, una danza scomposta che mescola vibrafono, percussioni e chiaroscuri elettronici con un senso di libertà espressiva.
Il cuore del disco, però, batte forte in tracce come Breaking Point, funk spigoloso e intransigente, o Reflection Eternal, che sembra scolpita nel silenzio e nella memoria. New Pinnacle vibra di melodia e ambizione, mentre BBL è forse il pezzo più carnale: groove afrobeat, arpa nervosa, una tensione che scivola via come una febbre ardente.
C’è anche spazio per momenti di pura grazia. Surrender, affidata al tocco devoto della pianista Courtney Bryan, è un inno alla resa, non come disfatta, ma come abbandono luminoso. E Unswept Corners, con la voce rarefatta di Niia, sembra un sogno notturno, una ninna nanna per spiriti inquieti.
L’epilogo, Discernment, è un ritorno al mistero: Josh Johnson al sax contralto disegna figure d’ombra sopra una trama fragile e spettrale. È come se l’album si chiudesse su una domanda, più che su una risposta. Una domanda che aleggia nell’aria, nell’eco dell’arpa, nell’anima di chi ascolta.
Con Gadabout Season, Brandee Younger compie un salto decisivo: non è più solo interprete e custode di una tradizione, ma ne è ormai autrice piena, corpo sonoro e visione. Il jazz, qui, non è un genere, è un luogo mobile, un modo di essere nel mondo. E in questo luogo, l’arpa che fu di Alice Coltrane è ancora regina.