
C’è un momento, verso la metà di Choose in cui Kirk Knuffke sembra smettere di suonare la cornetta per iniziare a respirare attraverso di essa. Il suo timbro baritonale si fa quasi gutturale, swingante, e improvvisamente ti accorgi che quello che stai ascoltando non è jazz nel senso canonico del termine: è un organismo vivente che muta continuamente forma. Benvenuti in Window, venticinquesimo capitolo di una carriera costruita sull’imperfezione come virtù e sulla contaminazione come cifra stilistica.
Se dovessi trovare un’immagine per questo disco, sarebbe proprio quella del titolo: una finestra. Non una vetrata istoriata che filtra la realtà in schemi precostituiti, ma una di quelle finestre urbane attraverso cui passa tutto: la luce obliqua del mattino, il frastuono dei clacson, le voci sovrapposte dei passanti. Knuffke, ascoltatore onnivoro e musicista dall’eclettismo militante, ha costruito la sua estetica proprio su questa permeabilità. Sa accogliere il pop più furbo, il funk più sporco, l’avant-garde più destabilizzante, e restituirli in una miscela che suona insieme familiare e straniante.
Il trio che lo accompagna è quanto di più lontano si possa immaginare da una sezione ritmica jazz convenzionale. Stomu Takeishi al basso e Bill Goodwin alla batteria dialogano e sabotano. In Choose, che apre l’album con un’esplosione di energia nervosa, Takeishi lavora sul groove come un cesellatore ossessivo, costruendo fondamenta mobili che Goodwin scompone con una batteria che sembra sempre sul punto di perdere il controllo ma non lo perde mai. Knuffke vi galleggia sopra con quella sua cornetta dal suono caldo e sottilmente imperfetto, disegnando linee melodiche che sono insieme cantabili e asimmetriche, pop e astratte.
For Your Needing sposta l’asse verso territori più rarefatti: riff di cornetta che emergono dalla nebbia come echi di un’idea ossessiva, bassi che camminano sul filo dell’ambiguità armonica. È musica che non cerca la risoluzione ma l’equilibrio instabile, il momento prima della caduta. E quando Knuffke canta – sì, canta, inserendo la voce come uno strumento tra gli altri – l’effetto è quello di una presenza fantasmatica, un blues decostruito che ha attraversato troppi filtri per restare riconoscibile.
Mr Ruins ci riporta su binari più tradizionali, almeno in apparenza. Takeishi costruisce un tappeto ritmico dove Goodwin può dispiegare la sua scrittura percussiva sofisticata, fatta di accenti tradizionali e concessioni misurate al molto peculiare linguaggio di Takeishi. Ma è proprio quando tutto sembra assestarsi su coordinate note che Knuffke introduce Carey, linea di cornetta comicamente ubriaca che sbanda pericolosamente sul bordo della parodia senza mai caderci dentro. È questo il suo talento: saper essere serio e ironico nella stessa battuta, letterale e metaforico nello stesso respiro.
La poesia di William Blake che introduce Runs Red non è un vezzo intellettualistico, è un’autentica dichiarazione di poetica. Blake vedeva l’universo in un granello di sabbia; Knuffke vede un cosmo sonoro in un trio essenziale.
Il suono di questo disco è scarno ma mai ascetico, concentrato ma mai claustrofobico. Knuffke e i suoi compagni hanno la capacità di far risuonare gli spazi vuoti, di trasformare il silenzio in tensione e la tensione in melodia. Non c’è un grammo di grasso, né un accordo di troppo. È musica che respira con i polmoni dell’essenzialità, ma che guarda al mondo con occhi curiosi, affamati, un po’ naïf.
Certo, non è un disco facile. Richiede disponibilità all’ascolto attivo, alla sospensione del giudizio, all’accettazione dell’ambiguità. Ma per chi è disposto a attraversare quella finestra del titolo, dall’altra parte c’è un paesaggio sonoro che pochi nel jazz contemporaneo sanno offrire, personale fino all’idiosincrasia, collettivo fino alla generosità, sperimentale senza essere particolarmente ostico, accessibile senza essere mai banale.
Window non è l’album che ti fa dire “ecco, finalmente ho capito chi è Kirk Knuffke”. È l’album che ti fa capire che Knuffke non vuole essere capito, vuole essere ascoltato, nel qui e ora di ogni singola nota. E questa, in un’epoca di certezze preconfezionate e narrazioni rassicuranti, è già una piccola rivoluzione.

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