In “About Ghosts”, la chitarrista e compositrice americana evoca spettri sonori e visioni oblique, guidando il suo ensemble in un viaggio tra lirismo, dissonanze e improvvisazioni fantasmatiche.
C’è qualcosa di impalpabile e insieme concretissimo in About Ghosts, l’ultimo lavoro della chitarrista e compositrice Mary Halvorson. Un disco che è al tempo stesso un passo avanti e un ritorno a casa: l’esplorazione timbrica si amplia, ma il cuore pulsante resta fedele alla visione singolare che da anni distingue Halvorson come una delle menti più affilate del jazz contemporaneo. A capo del suo affiatato ensemble Amaryllis, ampliato per l’occasione dai sassofonisti Immanuel Wilkins e Brian Settles, Halvorson costruisce un universo sonoro che convoca spettri, non tanto del passato, quanto di forme musicali possibili, ibride, liminali.
Fin dal brano d’apertura, l’incandescente Full of Neon, si percepisce l’intento: non semplicemente orchestrare, ma far convivere tensione e trasparenza, ritmo e rarefazione. L’equilibrio tra scrittura e improvvisazione è calibrato con precisione da orologiaia; ogni componente dell’ensemble – dal trombone arguto di Jacob Garchik alla tromba cangiante di Adam O’Farrill, fino al vibrafono liquido e penetrante di Patricia Brennan – ha voce in capitolo. Eppure è la chitarra di Halvorson, con la sua andatura sghemba, i suoi attacchi percussivi e gli effetti elettronici che deformano e amplificano le traiettorie melodiche, a conferire all’intero lavoro quella qualità sognante e obliqua che è ormai suo marchio inconfondibile.
Carved From fa emergere in primo piano questo timbro spigoloso e cangiante, conducendo l’ascoltatore in un clima da febbre lucida, dove i fiati si rincorrono e si sovrappongono con una libertà che sa essere feroce senza mai diventare caotica. Halvorson lavora per addizione e sottrazione, guidando l’ensemble come una regista attenta al dettaglio ma mai invadente. Lo si capisce bene nella lenta, magnetica Eventidal, dove il dialogo tra chitarra e vibrafono si fa quasi ipnotico, sospeso su un fondale scuro di ottoni e sassofoni. È qui che si percepisce appieno la capacità di Halvorson di comporre spazi più che melodie, di evocare ambienti sonori che sembrano alludere a un altrove mai definito.
Non mancano momenti di nervosa energia (Absinthian, Amaranthine), in cui l’ensemble si tende come un arco pronto a scoccare, e la ritmica di Tomas Fujiwara e Nick Dunston incalza con decisione. Ma anche nei brani più brevi, come Polyhedral o la conclusiva Endmost, Halvorson distilla una densità poetica rara, in cui ogni nota sembra suggerire un’eco, una presenza invisibile, forse quei “fantasmi” che il titolo evoca. Non è un caso che qui compaia anche un sintetizzatore, il Pocket Piano, usato con misura ma con impatto emotivo, ulteriore indizio della volontà di espandere l’orizzonte sonoro senza perderne l’identità.
About Ghosts è, in definitiva, un’opera che respira insieme al suo ensemble, che non teme il silenzio né la saturazione, che danza sul confine tra struttura e flusso. Se Amaryllis e Belladonna avevano già segnato un punto di svolta nel percorso di Halvorson, questo nuovo capitolo conferma la maturità di una musicista che ha imparato non solo a sorprendere, ma a costruire significato nel sorprendere. Il suo jazz non è un genere, ma un metodo per interrogare il mondo: stratificato, inclusivo, visionario. E About Ghosts è forse il suo disco più lirico, un dialogo tra assenze, memorie e futuri possibili.