12 Luglio 2025

Parlando di Jazz / Un fiore nell’abisso: “Armageddon Flower” di Ivo Perelman e Matthew Shipp String Trio

Viaggio nel cuore della libertà improvvisata, tra lirismo, tensione e astrazione

È un titolo bifronte, Armageddon Flower: da un lato l’eco dell’apocalisse, dall’altro la delicatezza, quasi l’illusione, di una fioritura. Ed è proprio nell’attrito tra questi due estremi che si colloca la musica del sassofonista Ivo Perelman, insieme al pianista Matthew Shipp, al bassista William Parker e a Mat Maneri alla viola: una formazione che rappresenta una delle più solide e inventive costellazioni del jazz d’avanguardia contemporaneo.

Registrato nel 2023 per Tao Forms, l’album presenta nove brani che non si offrono mai come strutture compiute, sembrano piuttosto momenti di emersione temporanea da un continuum ininterrotto di pensiero musicale. Non c’è tema, non c’è sviluppo nel senso tradizionale. Ogni traccia è un frammento autosufficiente, ma anche l’eco di una logica più ampia, forse irrappresentabile. Il sax tenore di Perelman, come sempre prodigo di dinamiche viscerali, soffiati e armonici spinti all’estremo, non gioca però il ruolo di protagonista assoluto: il gruppo è infatti pienamente orizzontale, e la forza dell’album sta anche in questa coralità.

Il piano di Shipp incalza e contraddice Perelman, ma altrettanto decisiva è l’azione di Parker e Maneri: non meri accompagnatori, ma generatori attivi di forme, timbri, contrasti. La loro presenza è fatta di densità e spazio, di energia e misura. Parker non “batte il tempo”, ma lo plasma in tempo reale; Maneri agisce nel profondo, cavando dal suo strumento un suono viscerale, materico, a tratti perfino tellurico. Il quartetto si muove come un organismo unico, anche nei momenti più fratturati.

La musica scorre libera, certo, ma è tutt’altro che arbitraria. C’è nella grammatica di ciascuno un rigore che si percepisce anche nei momenti più apparentemente caotici: Shipp unisce l’ossatura ritmica del jazz afroamericano più radicale a un senso della densità armonica che guarda a Scriabin e Messiaen, mentre Perelman riesce ad essere, nello stesso soffio, gutturale e lirico, furioso e intimo. Il suono del suo tenore non si limita a “suonare”: geme, stride, sospira, racconta. Come scriveva Ekkehard Jost a proposito di Albert Ayler, «la forma è sempre lì, ma la si deve cercare con altri occhi – o con altre orecchie».

Rispetto a molte delle loro precedenti collaborazioni, Armageddon Flower si distingue per un senso di sospensione più marcato. Non c’è qui la frenesia esplosiva di altri dischi, ma una sorta di inquieta stasi, come se i quattro fossero intenti a scandagliare un’area liminale dell’ascolto. Flowering Armageddon – il brano che chiude il disco – non è una catastrofe, ma una dilatazione estrema dell’attesa. L’Armageddon non esplode: fiorisce. E questo paradosso è forse il gesto più poetico dell’album.

Si è detto che Armageddon Flower non mira alla bellezza. E forse è vero, se per “bellezza” intendiamo una forma stabile, riconoscibile, pacificata. Ma proprio nella sua instabilità, nella sua natura provvisoria, nell’intensità dell’ascolto che chiede in cambio, l’album riesce a generare un’esperienza estetica profonda, a tratti persino estatica. Non è musica da sottofondo. Non è musica da salotto. È musica che ti attraversa, ti sfida, ti costringe a sentire.

In tempi di musica funzionale e algoritmica, Armageddon Flower è una dichiarazione di irriducibile libertà. E anche, forse, un promemoria: che dal caos può ancora nascere qualcosa di vivo. Un fiore, appunto. Nell’abisso.

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