Rileggere Pasolini e ricordare Pelosi come persone, non simboli. Per capire davvero quella notte bisogna accettare la complessità, la fragilità e il dubbio, lontano dalle semplificazioni e dai catechismi ideologici.
L’eccesso di comunicazione provoca sempre una sorta di repulsione verso l’argomento trattato, almeno a me fa questo effetto. E, purtroppo, accade anche verso un autore che amo come Pier Paolo Pasolini, celebrato oggi digitalmente sminuzzando le sue frasi, estrapolate dal contenitore che le ha ospitate (poesia, libro o saggio), facendogli dire tutto e il suo contrario, utilizzato a mo’ di bigliettini dei baci Perugina, santificato e, alla fine, ignorato come uomo, essere umano, peccatore, dannato della terra.L’omicidio Pasolini, come altri delitti eccellenti, divide gli squadroni della verità nei soliti due schieramenti: ucciso da un esteso complotto politico, ucciso da uno o più dei balordi emarginati che cantava nelle sue opere. Chi vive la vita nella vita e non soltanto sui libri, sa bene che questi due elementi sono entrambi presenti nella sua fine.
C’è tuttavia un collegamento tra questi due campi di idolatria, ed è costituito dall’unico condannato per il suo omicidio, Pino Pelosi. Del quale sono stato amico per un discreto periodo di tempo e sul quale voglio spendere due parole fuori dal coro.

Comincerei dall’ovvio che non ci diciamo mai: Pelosi non è un personaggio, è una biografia andata a male. Non un mostro, non un martire: un ragazzetto immaturo diventato vecchio nelle carceri, dove ha passato, non soltanto per l’omicidio Pasolini, metà della sua vita. Un ladro di polli che ha trovato in quel delitto una svolta alla sua “carriera”, la fama e l’ingresso nell’olimpo della criminalità, incastrandosi da solo tra un mondo che lo usava e un altro che lo giudicava. In lui non c’era la grandezza tragica che attribuiamo alle figure dei manuali, ma la gracilità concreta di chi cerca di sopravvivere. Questo non lo assolve e non lo condanna: lo restituisce alla dimensione delle persone, che è l’unica in cui si possa tentare di capire.
Quando lo ascoltavi, e più ancora quando taceva, capivi che la “verità” non è un sasso unico, è ghiaia. Verità processuale, verità storica, verità personale: strati che non combaciano mai del tutto. Nel suo racconto c’erano contraddizioni e smagliature, come ci sono in tutti i racconti di chi ha paura. C’erano anche punti fermi, ripetuti quasi a protezione. Io non posso certificare l’esattezza di ogni parola e non l’ho mai interpretato per le sue parole; posso però dire che in quelle parole stava la fatica di un’intelligenza semplice, non ingenua, che verso la fine della sua esistenza cercava una via per non essere solo la funzione di un delitto.
Intorno, il Paese continua a chiedere un significato totale: o il complotto o la rissa, o la Ragion di Stato o la colpa dei ragazzi di borgata. Ma la notte in cui morì Pasolini, e le molte notti che l’hanno preceduta, è più plausibile che siano esistite due solitudini che si sono incontrate male: una solitudine coltissima e vulnerabile, e una solitudine brutale e vulnerabile allo stesso modo. Il potere attraversa entrambe, in forme diverse: il potere dei corpi e quello dei discorsi, il potere della miseria e quello della celebrità. Quando due vulnerabilità si urtano, il risultato è quasi sempre un disastro.

Pelosi è stato per anni il punto di contatto fra i due catechismi: demonizzato dagli uni, usato dagli altri. Lo si tirava di qua e di là come una corda, per dimostrare la tesi preferita. E lui, a colpi di cento o più euro per volta a intervista, era diventato l’oggetto retorico perfetto: abbastanza fragile da essere manipolabile, abbastanza centrale da fare notizia. Io ho provato e provo, nel mio piccolo, a sottrarlo a questa funzione. Non per eleggerlo a vittima sacra, ma per ricordare che anche lui portava addosso gli urti di un mondo dove l’educazione sentimentale la fanno le strade, e la grammatica della colpa la stendono gli atti giudiziari.
C’è un’altra cosa che non diciamo: a furia di santificare Pasolini, lo disinneschiamo. Lo rendiamo un’icona inodore, un santino laico utile a decorare le bacheche. Pasolini non voleva essere amato così. La sua scrittura chiedeva rischio, ambiguità, contraddizione. E chiedeva anche che guardassimo in faccia quelli che lui chiamava “ragazzi di vita” senza trasformarli, all’occorrenza, in materia prima per i nostri inni civili. Se riduciamo Pelosi a simbolo negativo e Pasolini a simbolo positivo, abbiamo già perso l’occasione: siamo tornati nella comfort zone del moralismo.
La verità, quella praticabile, abita nel dettaglio umano. Sta in un gesto di difesa, in un cambio di tono, in un “non so” detto piano. Sta nelle omissioni che non sono complotti ma vergogne, nei buchi dell’indagine che non sono sempre trame ma spesso incuria, nei residui di lotta di classe che continuiamo a non voler nominare. Se metto in fila quello che ho visto e sentito, mi resta la convinzione che la sua fine non sia spiegabile con una sola chiave. Mi resta anche l’obbligo di non fare della complessità un alibi per non scegliere: condannare la violenza, sempre; rifiutare la disumanizzazione, sempre.
Di Pelosi conservo l’immagine meno letteraria possibile: una persona che a tratti chiedeva ascolto e a tratti fuggiva da sé. In quella oscillazione c’era la misura del nostro fallimento collettivo: non abbiamo strumenti per accogliere i colpevoli senza negarli, né per capire le vittime senza addomesticarle. Eppure è lì che si gioca la civiltà di una comunità: nel tenere insieme responsabilità e pietà, giudizio e cura.
Non ce l’ho un finale edificante, ma una cosa, leggendo Pasolini e passando del tempo con Pelosi, l’ho messa in pratica: immergersi nel fango della vita senza paura di sporcarsi, perchè lo sporco fa parte della vita. E della morte. Guardare l’orrore senza semplificarlo, riconoscere il dolore senza estetizzarlo.
Vogliamo proprio citare, come viene fatto spesso e a sproposito, un verso di Pasolini? E allora la metterei così: “Io non so i nomi”. So soltanto che qui il dubbio è la forma più onesta di rispetto, che il senso della misura del “caso Pasolini” è tenere insieme responsabilità e pietà.
