14 Novembre 2025

Smartphone in classe: la tecnologia è davvero “neutrale”?

Limitare gli smartphone in aula migliora modestamente il rendimento e l’equità, ma solo se l’intervento è parte di una strategia educativa chiara. Non è questione di vietare la tecnologia, ma di usarla con intenzionalità pedagogica. Un articolo dell’economista Luciano Canova pubblicato originariamente su Substack.

 

“Dipende da come la usi.” È il mantra con cui spesso archiviamo la discussione sui telefoni a scuola. Ma la ricerca degli ultimi anni suggerisce una verità meno comoda: contano sì le scelte didattiche, ma anche le caratteristiche dei telefoni e degli ambienti in cui li usiamo. La neutralità, in classe, è un’illusione. Quando un dispositivo progettato per catturare l’attenzione entra in un contesto dove l’attenzione è materia prima, l’attrito è inevitabile.

Partiamo dai fatti più solidi. Nelle scuole superiori statunitensi il 72% dei docenti considera la distrazione da cellulare un problema “maggiore”, e tre insegnanti su dieci dicono che far rispettare le policy esistenti è difficile; tra i docenti delle superiori la quota sale a circa sei su dieci. È un segnale chiaro: non siamo davanti a qualche caso isolato, ma a un fenomeno sistemico che erode tempo di lezione e qualità dell’attenzione.

Sul rendimento, il quadro è più sfumato ma con una tendenza riconoscibile. Studi in più paesi riportano piccoli miglioramenti quando i telefoni restano fuori dall’aula, con benefici più evidenti per chi è già in difficoltà. Un recente trial randomizzato su larga scala (il “gold standard”) ha trovato incrementi modesti ma misurabili dei voti quando gli studenti lasciavano i telefoni fuori, pur con risultati non uniformi anno per anno. In altre parole: non è una bacchetta magica, ma l’effetto sul focus e sulla performance esiste e non va sottovalutato.

Non basta tuttavia proclamare un divieto per aspettarsi miracoli. Un’analisi pubblicata su Lancet Regional Health Europe e ripresa dalla stampa britannica nota che il ban da solo non migliora automaticamente voti e benessere, e che il tempo totale passato sullo smartphone nell’arco della giornata non cala se l’intervento si limita all’orario scolastico. Qui il punto è di metodo: senza obiettivi chiari e un disegno educativo più ampio, la norma resta sulla carta e gli effetti si disperdono.

Le linee guida internazionali convergono su un principio pragmatico: tecnologia solo quando supporta chiaramente l’apprendimento. L’UNESCO ha mappato un mondo in accelerazione: 79 sistemi educativi (circa il 40% del totale) hanno introdotto limiti o divieti d’uso a scuola entro la fine del 2024, proprio per ridurre distrazioni e proteggere diritti digitali degli studenti. E ricordano un dato “invisibile”: basta una notifica in arrivo per far perdere il filo e possono servire fino a 20 minuti per riallinearsi al compito.

C’è però anche un pezzo di realtà da non ignorare. Quasi tutti gli adolescenti (negli USA, 13–17 anni) hanno accesso a uno smartphone; molti genitori lo vogliono per ragioni di sicurezza, e in assenza di evidenze conclusive sull’utilità o il danno durante emergenze, il tema resta soprattutto di percezione e coordinamento familiare. Qui la scienza ci dice: prudenza nel trarre conclusioni, e attenzione al fatto che il telefono in momenti critici può anche distrarre dagli annunci di sicurezza tanto quanto rassicurare.

E i “pro” didattici? Esistono, ma funzionano solo con intenzionalità. Per attività strutturate e guidate, lo smartphone può essere un terminale per contenuti multimediali, strumenti di valutazione rapida, accesso a LMS, calendario e registrazione di informazioni (opportunità che richiedono progettazione, tempi definiti e competenze di autocontrollo). Senza queste condizioni, prevale il multitasking: più stimoli simultanei, peggiore memoria di lavoro e risultati inferiori nei test.

Dove stiamo quindi? L’evidenza non racconta un ritorno al gessetto, ma suggerisce una rotta precisa: ridurre drasticamente l’uso non didattico durante le lezioni e aprire finestre mirate di utilizzo quando c’è un chiaro valore pedagogico. Una rassegna di 22 studi invita a evitare approcci “taglia unica” e a lavorare su obiettivi, contesto, implementazione e consenso della comunità scolastica. In parallelo, è utile integrare percorsi di educazione alla cittadinanza digitale, coinvolgimento di studenti e famiglie e coerenza degli adulti (le stesse regole valgano per chi insegna, un aspetto che dimentichiamo sovente).

Ultima nota, fuori dall’aula ma connessa: un’ampia indagine internazionale associa l’accesso allo smartphone prima dei 13 anni a esiti peggiori di salute mentale, specie tra le ragazze. Non è un argomento per il ban totale, ma un promemoria: il tema non è il “nuovo” in sé, è come lo integriamo nella vita (e nella scuola) per massimizzare benessere e apprendimento.

Ma in conclusione?

Non è luddismo o rifiuto del nuovo: è una richiesta di progettazione mirata. In classe, la priorità è il focus e la relazione in presenza; gli smartphone possono entrare quando aggiungono valore documentabile, con tempi e compiti chiari, e restare fuori quando lo riducono. Se la tecnologia non è davvero neutrale, tocca a noi (scuola, famiglie, istituzioni) renderla alleata, non protagonista.

 

Il paper della settimana

 

Sungu, Alp, Pradeep Kumar Choudhury, and Andreas Bjerre-Nielsen. “Removing Phones from Classrooms Improves Academic Performance.” Available at SSRN (2025).

Lo studio valuta con un RCT l’impatto del divieto di smartphone in aula su 16.955 studenti di 10 atenei dello stato indiano di Odisha nella primavera 2024. I corsi sono stati randomizzati con un trattamento: raccolta obbligatoria dei telefoni all’inizio della lezione nei trattati vs prassi invariata per il gruppo di controllo; i risultati monitorati includono voti e assenze, due survey (N=2.557) e 7.797 osservazioni in classe, con studio preregistrato e approvato da IRB (Institutional Review Board). Il divieto dell’uso dello smartphone aumenta i risultati medi agli esami di 0,086 deviazioni standard, con effetti più marcati per chi partiva da performance pregresse basse, per le matricole e per gli studenti dei corsi non-STEM, mentre sono nulli per gli studenti sopra la mediana, per i secondi anni e per gli STEM; gli effetti sono robusti a diverse specifiche e accompagnati da una riduzione della dispersione dei voti tra i trattati, segnale di maggiore equità. Non emergono cambiamenti sostanziali nella frequenza: i voti più alti sembrano quindi riflettere soprattutto una migliore attenzione e qualità dell’apprendimento durante la lezione, non un aumento della presenza. Sul piano delle percezioni, l’esposizione al divieto rende gli studenti più favorevoli alle restrizioni, ne fa percepire benefici concreti e riduce la preferenza per aule “senza regole”; si osserva però un lieve aumento del FOMO, senza variazioni nel benessere soggettivo, nella motivazione, nel tempo complessivo che si passa sullo schermo, nella propensione a portare il telefono a lezione o nelle esperienze di molestie online. Le osservazioni indipendenti in classe riportano meno uso di smartphone e comportamenti di disturbo e un maggiore coinvolgimento dei docenti, che a loro volta usano meno il telefono; al contempo alcuni osservatori giudicano gli studenti talvolta “più distratti”, forse per una difficoltà di riallocare l’attenzione (nuovamente disponibile!) verso stimoli non digitali. Nel complesso, il divieto di smartphone in aula appare un intervento a basso costo che migliora modestamente le performance e sostiene l’equità, con consenso che cresce grazie all’esperienza diretta; i limiti principali dello studio sono il contesto universitario indiano (non facilmente generalizzabile ad altri ambienti) e l’orizzonte di breve termine, con effetti potenzialmente diversi (anche maggiori) in altri livelli scolastici o con esposizioni più lunghe.

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