Street Art: dissing tra artisti della tecnica e del “virale”. La guerra per la fama è tra murales e “attacchinaggio” social.
Nel mondo della streetart si muove qualcosa. C ’è sempre più visibilità per alcuni, e non necessariamente per quelli tecnicamente più abili. Il meccanismo della moltiplicazione dell’infinita riproducibilità delle opere, anche le più effimere, resa possibile da internet e dai social, sta creando una dicotomia che forse è già sfociata in rivalità, in diatriba o, per un usare un termine più giovine, in dissing. La mia opera può anche essere di carta può andar via come pula al vento, ma resta se viene fotografata e condivisa quanto la tua, che costruita sulla pietra e sulla tecnica.
Non siamo a strapaese e stracittà, non ci troviamo di fronte alla rivalità tra Bernini e Borromini o a quella tra Visconti e Fellini – tutte storie bellissime beninteso – ma comunque un punto dirimente c’è.
Alcuni artisti, con la tecnica del Wheat paste up, cioè incollando con una semplice colla di farina e acqua, riescono velocemente a creare opere che hanno preparato, magari stampato e colorato nei loro studi a volte giocoforza in modo sbrigativo (anche perché uno dei loro obiettivi e quello di stare sulla notizia, di essere militanti): Propal, AntiTrump, non importa ognuno lo è a suo modo e per qualcosa di diverso. Palumbo non è TVBOY, e Laika non è Harry Greb. La tecnica dell’ ”attacchinaggio” è quella che si presta di più alla militanza, qualunque essa sia.
Dall’altra parte ci sono autori con storie e tecniche artistiche più complesse, le cui opere richiedono giorni di lavoro, bozzetti, impalcature, finanziamenti, e oggettivamente anche una ricerca, almeno in alcuni casi, notevole. Eppure, alla fine lamentano di avere meno visibilità – o la stessa visibilità – sui media di quelli che alcuni di loro considerano poco più che degli attacchini. E la visibilità, che è la fama di oggi, è tutto o almeno molto.

Così Mr Klevra su TVBOY: “Signore e signori, vi presento TVBOY: il genio incompreso (ma neanche tanto) che da anni ci delizia con i suoi ‘capolavori’ incollati sui muri delle nostre città. Prende una foto, la modifica su Photoshop come farebbe un liceale annoiato al primo anno, e tac! Voilà, street art. Ovviamente, viene osannato da gallerie di FAMA internazionale (notare le maiuscole), e magicamente — ma proprio per puro caso — finisce su tutti i giornali nazionali. Che coincidenza, vero?”.
Traspare qualcosa di più di un fastidio. Del resto dobbiamo pur prendere atto del fatto che almeno dai tempi di Andy Warhol, l’arte si mescola al consumo e alla fine quel che conta è la presa che ha sulla comunità dei fruitori, sul pubblico a sua volta indirizzato, almeno in parte, dall’élite dei critici.
Ma forse è avvenuto ancora prima: pensiamo a Duchamp o più banalmente all’avvento della fotografia, che da una parte moltiplica l’arte dall’altra ne cambia profondamente il senso e lo scopo. In un suo post Mr. Klevra arriva a dire che “se continuiamo così, tra un po’ anche le etichette del tonno verranno esposte al MoMA”. Ora, l’arte del XX e XXI secolo espone etichette di prodotti di consumo da un bel po’. Però mi pare di capire che oltre a questo c’è anche la denuncia di un’idea di arrivismo e sfruttamento delle tragedie del mondo per far quattrini. Temo che ci sia qualcosa di vero, anche qui, ma che non sia una novità neanche questa.

Insomma l’arte è propaganda e spesso delle peggiori da tempo immemore: certo quella dei Papi ha prodotto alcune delle opere più grandi di sempre. Poi alla fine un discrimine c’è e ci sarà sempre spero. Quanto ai murales, parte centrale della streetart, si prestano molto bene alla propaganda dei regimi e lo fanno da sempre: l’ultimo episodio che mi viene in mente è quello che ha visto protagonista Jorit, artista molto affermato e coccolato dalle nostre parti, che a un certo punto ha deciso di dipingere murales filo putiniani nei territori ucraini occupati dalle truppe russe, e anche di farsi fotografare con il presidente russo che molto lo ha lodato. Gli ucraini non la presero benissimo e cominciarono a taggare le sue opere con piccole bandiere ucraine.
Comunque in quest’epoca vinci se ti moltiplicano, ti fotografano ti condividono, e ogni mezzo sembra lecito. Per poi sfruttare la fama, magari per fare un progetto con Messi su una scarpa da ginnastica.
Gli artisti possono essere engagé come di regime, e spesso la differenza è sottilissima.
Ci sono anche artisti che decidono di usare più tecniche e di fare, quando ritengono, wheat paste up e quando vogliono financo affreschi. Uno di questi è Maupal cioè Mauro Pallotta, bravo con il pennello e con la bomboletta ma che deve parte importante della sua popolarità ai Papa Francesco che ha incollato dalle parti del Borgo e che ora, sentendosi un po’ orfano del “suo” Papa, ha cominciato a dedicare, quasi uguali cambiando sol al testa e il colore della tunica, al Cardinale Matteo Zuppi, che molti considerano erede spirituale di Bergoglio pur non essendo salito al soglio.
Personalmente credo che le contraddizioni ci siano ma che possano essere considerate nel mondo e del mondo. L’arte non è pura ma fa parte dell’umano e del mercato, quindi, ce la teniamo così.


1 commento
un giornalista vagamente di sinistra e vagamente rosicone che non sa di che parlare per attirare un poco di attenzione