Giovedì 3 luglio sarà assegnato a Roma il prestigioso riconoscimento che, dal 1947, designa il migliore romanzo italiano e il suo autore. In gara – e non è un caso – sono di solito le grandi case editrici. Ma, a sorpresa, in questa edizione del Premio, soprattutto per quanto riguarda la rosa dei 12 candidati, figuravano anche piccoli editori e qualche autore alla sua “opera prima”.
Ormai è questione di ore: nella tarda sera di giovedì al Museo Etrusco di Villa Giulia (con una diretta televisiva a partire dalle 23 su Rai Tre) si conoscerà il vincitore tra i cinque finalisti, i cui lavori sono stati vagliati non solo dalla giuria del Premio, ma anche da varie istituzioni tra cui i Circoli di lettura delle Biblioteche di Roma e – per il Premio “Strega Giovani”- da 118 scuole di secondo grado in tutta Italia.
Nel dettaglio, ecco la “cinquina” finalista, accolta con critiche e riserve non solo dai “giurati popolari” disseminati in tutta Italia, ma anche dai lettori che, tramite i social, hanno dato luogo a polemiche come non accadeva da anni.
Il più bersagliato è stato Paolo Nori con “Chiudo la porta e urlo” (Mondadori), dialogo indiretto con il poeta Raffaello Baldini (1924-2025) conterraneo dell’autore e da lui reinterpretato come cantore di un disagio personale che si esprime in un’ironia feroce e autobiografica da cui nessuna, tra le persone incontrate dal sessantenne Nori, riesce a sfuggire.
Ogni capitolo sembra un post su un social (Facebook, Threads, Instagram e, per i più cattivi, Twitter…) tanto è breve e lapidario.
Non si tratta propriamente di un romanzo, quanto di un monologo interiore che ha diviso in due i lettori: da una parte chi si è riconosciuto in quel sarcasmo, dall’altra chi ammette di non essere nemmeno riuscito a terminare il libro. Peccato, perché l’idea era interessante e l’intenzione di tradurre il Baldini (il quale scriveva nel dialetto di Sant’Arcangelo di Romagna) cogliendone i momenti in cui “succede una cosa semplicissima e meravigliosa: si vive” si disperde in quell’onnipresente, ossessivamente ripetuto, “Io che …”, a inizio di ogni frase.
Un disagio diverso ha contraddistinto la maggioranza dei lettori -anche i più affezionati – di Nadia Terranova con il suo corposo non-romanzo “Quello che so di te” (Guanda), che non è una minaccia pronunciata da una spia, bensì il pensiero ossessivo dell’autrice nei confronti di una bisnonna mai conosciuta e lasciata nel dimenticatoio di un vecchio manicomio. La Terranova vorrebbe stabilire un contatto (non da veggente, sia chiaro) con questa triste figura e lo fa nel modo più ovvio, mettendo a confronto la sua esperienza di madre con quella di Venera, la bisnonna, colpevole di aver partorito (durante lo spettacolo in un circo) una bambina morta.
Avrebbe potuto essere un libro in cui viene narrata la sofferenza di una donna ipersensibile, ai primi del Novecento, affidandole il ruolo di protagonista in un contesto storicamente costruito. Così non è. Tanto è affezionata al suo essere donna, a se stessa soprattutto, che la Terranova si disperde ossessivamente in cicli mestruali, placente, ecografie, rendendo intollerabile la lettura di questa versione nostrana di Isabella Allende.
Ulteriore mancanza di rispetto verso il lettore è “Inventario di quel che resta dopo che la foresta brucia” opera prima di Michele Ruol (Terra Rossa) dove l’assenza di nomi potrebbe provocare un rifiuto e far chiudere il libro a pagina 3.
Chi riesce a proseguire, invece, potrebbe affezionarsi a questa famiglia distrutta (la morte in un incidente stradale di entrambi i figli) dove la terribile verità viene svelata come in un puzzle, ricostruito attraverso brevi descrizioni per ogni capitolo: anche qui i capitoli sono di una, due pagine. Quello che realmente infastidisce è il fatto che i protagonisti vengano indicati in “padre, madre, maggiore e minore” oltre alla tendenza (ma Ruol non è l’unico) a non usare la sintassi italiana.
Voltata pagina, si trova Elisabetta Rasy con “Perduto è questo mare” (Rizzoli) romanzo in cui convergono i temi della ricostruzione della figura di un poeta (vedi anche Nori) e dell’essere donna (Terranova), dove l’artista evocato è lo scrittore napoletano Raffaele La Capria (1922-2022) e il confronto, questa volta, è con il padre della stessa autrice: la figura paterna da una parte e l’amicizia dall’altra, scorrono sul comune sentimento dell’ammirazione e sono il pretesto per raccontare l’epoca che va dal secondo dopoguerra ai nostri giorni.
Un romanzo malinconico, mai superficiale, scritto con uno stile pulito, in cui l’autrice non ha l’ansia di raccontarsi, bensì di descrivere, attraverso le vite e le figure degli uomini cui aveva riconosciuto autorevolezza, un quadro complesso di due realtà, Napoli e Roma del Novecento.
Un romanzo autobiografico (lo sono tutti, in effetti) scritto con uno stile asciutto, spietato e per questo efficace, è “L’anniversario” di Andrea Bajani (Feltrinelli) racconto dell’ultima volta che l’autore ha visto i suoi genitori, prima di allontanarsi per sempre da una famiglia disgregata anche se apparentemente normale: un padre autoritario e una madre sottomessa, negli anni Ottanta-Novanta. L’autore riesce a descrivere il malessere di due soggetti infelici infrangendone l’autorità genitoriale, senza sconti per nessuno, neanche per sé stesso. Il libro ha già vinto il Premio Strega Giovani: segno che, quando sono chiamati a giudicare, le centinaia di ragazzi tra i 16 e i 18 anni comprendono probabilmente la differenza tra solipsismo e partecipazione alle vicende narrate.
Non rimane che aggiornare gli orologi in questo conto alla rovescia, per vedere quale, tra i cinque libri in salsa di Io narrante, si aggiudicherà la gloria: per la fama, ai lettori l’ardua sentenza.
