17 Luglio 2025

Vivere a Roma, pur per pochi giorni, significa anche allenarsi ad attendere un taxi

Saranno state le diciotto e trenta, al massimo le diciannove. Ero in via Fabio Germano. Di giovedì. Roma non era soffocata da altri diecimila eventi. Non c’erano cerimonie per il Giubileo. Il Papa era già stato eletto. Il campionato era finito, quindi Prati – dove mi trovavo – non doveva risentire dell’afflusso dei tifosi verso lo Stadio. Precisamente era il 12 giugno del 2025 e il caldo, già estivo, rendeva l’aria spessa, e ogni essere vivente aveva preso un andamento lento. Una flemma, una riduzione del movimento, una diversa percezione del tempo.

Questa la premessa, che se tale era, e lo confermo, ne dovevo accettare anche le conseguenze, come qualcosa di inevitabile a cui doversi arrendere. Impavido ho voluto provocare le divinità della mobilità romana, nella categoria “chiama un taxi”.
Immagino che l’idea in sé alimenti diversi sentimenti e reazioni, ognuna comprensibilissima, sia chiaro.

A predominare è però un miscuglio, un amalgama, una ricetta alchemica, per la quale il reale si combina perfettamente con il miraggio, il visibile con l’invisibile, la presenza con l’assenza. Ma forse, ancor meglio, c’è da considerare un approccio esistenziale, per il quale il romano nel momento in cui cerca un taxi raggiunge l’acme ossimorico di illusione e disillusione al medesimo tempo, ovviamente. Del resto – detto per inciso – è una città dove si risponde ad una qualsiasi proposta con: “vediamo”, “ci sentiamo”, “ti faccio sapere”, “aggiorniamoci”.

Essendo un abitante dalla nascita di questa città, sono vaccinato alla situazione, pur essendo stato infettato dal virus locale, e allora senza pensare, con quel senso pragmatico che dovrei sapere mi manca/ci manca, decido che avrei chiamato il mezzo di trasporto a pagamento con la app disposta.

Ecco, che la ricerca via internet inizia, e io attendo, con la viva speranza che qualcosa accada. Passa il tempo e niente. Non si trova un taxi, nessuna auto a disponibile. La cosa mi conferma che avere un app non ti garantisce nulla, se poi sul territorio quel servizio offerto è carente.

Ricordo, per chi fosse arrivato sino a qui, che era un giovedì, tardo pomeriggio, in assenza di eventi straordinari. Insomma, un giorno qualsiasi. E tuttavia non si riusciva a trovare un taxi. Non demordo e provo di nuovo, convinto che prima o poi troverò qualcosa: un Venezia 71, un Palermo 14, o una Verona 06, qualsiasi sigla va bene. Inizio a innervosirmi e qui compio già un errore. Ci si indigna per cose molto, molto più importanti. Dovrei saperlo!

Passo al telefono. Chiamo il numero di radio taxi. I metodi noti, le vecchie maniere, a volte funzionano meglio, mi dico. Quando mi aggancio al servizio ho la rivelazione totale, la verità ultima, la decisiva conferma di quanto mi era noto. Parte infatti un jingle musicale, ossessivo, che sembra non finire mai, perché prima che risponda qualcuno il tempo si squaglia, diventa qualcosa di arbitrario.

In loop il famoso medley di Israel Kamakawiwo’ole che canta Somewhere Over the Rainbow, brano che recita: “Da qualche parte sopra l’arcobaleno / molto in alto / e i sogni che sogni…”. La ripetizione infinita di questo ritornello in attesa che qualcuno risponda. Capisci che vogliono portarti altrove, un viaggio lisergico, l’ipnosi definitiva, ogni altra possibile via di fuga e concessa, ma non un taxi.  Ci vorrebbe il Mago di Oz, per superare le avversità romane.

Non me la prendo, mi arrendo e attendo. Ripenso ai tanti tassisti con cui ho parlato nel corso degli anni. Difendono ostinatamente l’idea che le macchine in giro sono sufficienti, che Roma non ha bisogno di nuove licenze. Il problema è sempre un “altro” e magari avranno le loro ragioni. Per esempio che se aumenti i taxi diminuiscono le corse, quindi guadagnano meno. Poi quante corse in più te fanno fa’ i pellegrini del Giubileo? Nessuna. Perché er tassi nun lo prenneno. Vengono co’ l’auti, i torpedoni.

Penso e ripenso e mentre penso arriva una risposta dal centralino del radio taxi che mi assegna il mio mezzo, questa volta dopo breve attesa, sempre con il “rainbow” di cui sopra. “Sassari 48 in cinque minuti”. Tiro un sospiro di sollievo. Oramai ho capito che per vivere a Roma bisogna avere dimestichezza con il fato, da accogliere come il destino, un amore imprevedibile che ti domina e a cui ti conviene non resistere. Insomma, come chiamare un taxi.

Ma basta con queste paranoie sui taxi che non ci sono. Se decidete di venire a Roma preparatevi alle file fuori della Stazione Termini, lì potrete temprare il vostro carattere e dimostrare la vostra romanità. Si diventa cittadini romani doc abbracciando senza timore l’eterno ritorno, un atteggiamento che può trasformare la vita!

Foto di Alex Costin diffusa con licenza creative commons su Fickr.com

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