La “guerra” per le scritte sui muri

Tutto inizia – o almeno così sembra – il 6 febbraio, con un post comparso sulla pagina Facebook di Christian Raimo, scrittore, intellettuale, da alcuni anni assessore alla cultura del terzo Municipio di Roma. Il testo ha un’apparenza innocua e reca un testo molto semplice e sintetico: “Cos’è una città senza scritte?” Niente di più. A corredo di quest’unica frase, appaiono una dozzina di immagini, raffiguranti scritte comparse sui muri di varie città: scritte ironiche, scritte politiche, scritte romantiche, alcune memorabili, altre facili da dimenticare.

Data la notorietà dell’autore il post genera, come era prevedibile, parecchi commenti – circa 300 per la precisione – alcuni dei quali scandalizzati, altri solidali. C’è chi ricorda a Raimo il suo ruolo istituzionale e si scandalizza che un assessore in carica guardi con favore i writer.
C’è chi sottolinea alcuni nobili precedenti storici, citando coloro che potrebbero essere definiti dei writer ante litteram, come Pasquino. C’è chi posta ulteriori foto di muri istoriati. C’è chi fa distinguo fra scritte esteticamente gradevoli e non, o fra chi scrive su un muro qualunque e chi lo fa su un monumento storico.
C’è infine chi prova a rispondere alla domanda retorica del post con frasi come “una città senza scritte è una città civile”, oppure con l’opposta tesi “una città senza scritte è una città morta”. Normale amministrazione.

La questione potrebbe dirsi conclusa così, senza particolare clamore. Se non fosse che l’innocuo post di Raimo è, nella realtà, solo l’ultimo segnale di una battaglia culturale e politica che l’autore sta portando avanti da moltissimo tempo e che lo vede in prima linea, non tanto nell’esaltare le scritte sui muri, quanto nel contrastare il concetto di decoro, inteso come categoria positiva, civica e politica.

Decoro: una questione politica

Una settimana prima del suo post su Facebook, il 31 gennaio, Raimo aveva pubblicato sul blog “Minima et Moralia” un interessante e approfondito articolo sul tema del decoro, intitolato “Movida, decoro, sicurezza urbana: il bisogno di ripoliticizzare la questione a partire da Roma”. Un pezzo, fin dal titolo, decisamente più strutturato, complesso e completo della sintetica e un po’ provocatoria frase: “Cos’è una città senza scritte?”.

Dopo una lunga premessa storica, in cui viene ricordato come il termine movida sia apparso per la prima volta negli anni Ottanta, nella Spagna post franchista, per indicare un movimento libertario e giovanile, che si riappropriava delle vie e delle piazze delle città spagnole dopo decenni di dittatura, Raimo passa ad analizzare come mai quel concetto, un tempo positivo, venga ora considerato in modo negativo, quale sinonimo di confusione e degrado.

Raimo analizza alcune ricerche sociologiche, commissionate nel 2018 dalla Questura di Roma e dal CNR e successivamente utilizzate anche come base per alcuni atti amministrativi da parte del Comune di Roma.
Nell’articolo si individuano alcune falle di quelle ricerche, che tendono a dimostrare un nesso causa-effetto fra degrado, movida e devianze giovanili. Sono ricerche che Raimo stigmatizza come errate per la loro impostazione, considerata in entrambi i casi poco scientifica e fondata su pregiudizi negativi che portano, inevitabilmente, a conclusioni già preconfezionate.

Queste conclusioni, nate da premesse poco solide, condurrebbero, secondo l’autore, a una deriva politica di natura eccessivamente securitaria, che da queste analisi viene giustificata su un piano scientifico e sociologico.

L’esempio che viene portato nell’articolo è quello del nuovo regolamento di Polizia Urbana, approvato dal Comune di Roma nel 2019, considerato da Raimo come un atto fortemente repressivo. “Sicurezza, decoro, e ordine pubblico sono diventate la triade di una nuova egemonia ideologica – scrive Christian Raimo – che riesce a mettere insieme esponenti politici di sinistra e di destra… Le ordinanze fatte in nome di sicurezza, decoro e ordine pubblico delineano un’idea di mondo in cui il degrado, la minaccia, il pericolo, il rischio sono da contrastare attraverso un controllo sempre più pervasivo. Se non ronde, telecamere; se non ruspe, taser; se non sgomberi, diffide”.

Scende in campo Retake

L’associazione Retake – associazione piuttosto nota, che conta a Roma un alto numero di iscritti e di simpatizzanti, volontari dediti alla cura del decoro urbano – conosce bene le posizioni dello scrittore e assessore romano. Ecco quindi che basta il semplice post di Raimo, il già ricordato “Cos’è una città senza scritte?”, per scatenarne la reazione, che arriva via social.

In un post datato 8 febbraio, apparso sulla pagina Facebook ufficiale di Retake Roma, che affianca le foto di un muro ripulito dai volontari dell’associazione a quelle delle scritte postate da Raimo, si legge: “Il primo è un retake nel cuore di Roma, il secondo è un post di Christian Raimo, assessore della giunta del III Municipio di Roma Capitale. È forse ingiusto chiedere a un assessore, che non ha un minimo di decoro per ciò che pubblica sui social media, di avere un’idea chiara di cura dei beni comuni che i cittadini ed elettori romani vogliono per la propria città? Noi tuttavia siamo inguaribili ottimisti e vogliamo credere che ci sia un percorso di redenzione anche per chi non comprende la differenza tra un’opera d’arte e il writing vandalico su spazi ed edifici pubblici”.

La miccia è innescata, lo scontro inevitabile. Raimo risponde a sua volta immediatamente, sempre a mezzo social, con velenoso sarcasmo, condividendo sul proprio profilo il post di Retake: “Questo post ma anche l’articolo che posta Retake è interessante. Si scrive che sui muri ci dovrebbero essere scritte incoraggianti, magari messaggi motivazionali e ordinati per le persone stanche e sfiduciate. Io capisco la bontà dei desideri. Ma io penso che la città sia anche conflitto, crisi, scazzo, e certo anche odio, rivolta, eccetera. E a me mette depressione raschiare i pali dagli adesivi. Una civiltà dell’empatia, della fiducia, dell’ordine e del decoro mi sembra un’ideologia totalitaria quasi peggio di quelle storiche”.

La filosofia di Retake, per molti versi opposta a quella dell’assessore municipale ma che non si limita a deplorare le scritte sui muri, si è espressa spesso attraverso scritti e pamphlet, apparsi su diversi siti e testate. L’articolo a cui fa riferimento Raimo nel suo post è stato pubblicato da Retake il 2 febbraio sul sito ufficiale, a firma di Giuseppe Romiti, con il titolo “Il writing vandalico nella comunità urbana. Creatività, legalità e rispetto della persona”.

Tag e writer

Anche questo articolo, proprio come quello a firma di Raimo prima citato, parte da un ricordo storico degli anni Ottanta e dalla diffusione, negli Stati Uniti di quegli anni, del fenomeno dei writer, nato negli anni Sessanta a Philadelphia, ma rimasto piuttosto marginale per circa un ventennio.

Citando vari articoli, documentari, libri, soprattutto italiani e statunitensi, l’autore si pone alcune domande, in apparenza semplici e banali. Chi sono i writer? Perché scrivono sui muri? Il writing è arte? Il writing può avere un valore sociale? Il writing può avere un significato politico? Le risposte appaiono tutte piuttosto favorevoli e benevole verso il fenomeno dei writer.
Certo l’articolo è anche inframezzato da apparenti commenti sarcastici dell’autore. Ad esempio, dopo aver parlato dei possibili parallelismi fra tag – quelle scritte a mo’ di sigla, che appaiono su molti muri cittadini – e pitture rupestri, Romiti aggiunge frasi come: “Chi l’avrebbe mai detto! E noi che pensavamo fossero solo scarabocchi!”. Ma il senso generale sembra abbastanza chiaro: distinguere un fenomeno da una degenerazione evidente, che per Retake è scaduto nel vandalismo. E nel testo Romiti non sembra parlare dei famosi messaggi motivazionali da scrivere sui muri al posto delle tag, come asserito da Raimo.

I writer e le comunità territoriali

Ciò che lascia un po’ dubbiosi è però la conclusione dell’articolo di Romiti. Lì forse l’autore pecca di eccessivo ottimismo della volontà, auspicando un mondo ideale in cui writer e comunità urbane dialoghino amabilmente fra loro e trovino soluzioni di compromesso, o comunque concordate, attraverso processi di democrazia partecipata.

Tutto molto bello in teoria, quanto utopico nel concreto, oltre che in contraddizione con le motivazioni di fondo che muovono la maggior parte dei writer: le cui opere, volutamente, non nascono di concerto col territorio e i suoi abitanti, ma spesso contro il contesto sociale in cui si realizzano; un contesto vissuto spesso come elemento opprimente, castrante, reazionario, autoritario.

“È auspicabile qualsiasi forma di contatto, collaborazione, che possa favorire il clima di rispetto reciproco necessario per la convivenza civile. Retake evidentemente crede che questo sia possibile perché si è già impegnata in varie occasioni, sostenendo e partecipando a iniziative di street art autorizzata. E auspichiamo che questo processo di consultazione e condivisione possa adottare i ruoli, i metodi e gli strumenti tipici della democrazia partecipativa”, scrive Romiti nel suo articolo, operando, in questo suo passaggio, una sovrapposizione automatica e forse eccessiva fra le opere dei writer e la street art, due forme di espressione che non sempre coincidono, né per modalità di espressione, né per finalità espressive.

A questo concetto, l’autore ne aggiunge anche un altro, decisamente più rigido e securitario: “D’altro verso, è noto, a detta della maggior parte degli esperti, che il fenomeno del writing contiene un elemento di illegalità intrinseca e insopprimibile. Ad esso non può che corrispondere un’azione adeguata di controllo e sanzione da parte delle istituzioni dello stato e, da parte della nostra associazione, un sostegno al senso civico della cittadinanza. Chi prende di mira i muri della città in modo arbitrario, deve tenere conto di tutte le possibili conseguenze, a partire da quelle legate all’applicazione delle norme giuridiche – poste a tutela della convivenza civile – fino a quelle che nascono dal confronto con i cittadini residenti, destinati a ricevere quelle opere nel contesto storico, artistico e urbanistico in cui pretendono di collocarsi”.

Forse, è stato proprio questo pasaggio ad aver irritato Raimo. Il confine fra il rispetto delle regole e una certa quota di giustizia fai da te, evocata, forse inconsapevolmente, da quella frase sul “confronto con i cittadini residenti, destinati a ricevere quelle opere”, è infatti poco chiaro e il rischio di una interpretazione in senso puramente repressivo è evidente.

Ad ogni azione, una reazione uguale e contraria?

C’è però un aspetto su cui l’articolo di Retake potrebbe stimolare una riflessione utile per tutti. Se spesso si evoca la libertà di espressione quale molla che spinge molti writer a realizzare le proprie creazioni, invocando, in nome di questa libertà, un atteggiamento non repressivo nei loro confronti, allo stesso modo e per le stesse ragioni diventa lecito giustificare la libertà di altri cittadini di cancellare quelle opere.
“Bisogna prendere atto che la comunità, fatta di residenti, lavoratori, studenti e quanti altri interagiscono con il territorio, non può essere considerata mero soggetto passivo, utente di manifestazioni creative su cui può argomentare solo una élite costituita da intellettuali militanti e dagli stessi autori. Se qualcuno sceglie di creare in strada, è giusto che sia anche la strada a decidere”. Dunque, se qualcuno può scegliere di dipingere o scrivere su un muro, altri, allo stesso titolo, possono scegliere di cancellare quelle scritte.

Qualcuno ricorderà che nel 2016 fu addirittura uno dei più noti street artist del mondo, l’italiano Blu, ad operare egli stesso la totale cancellazione dei propri lavori. In una notte, fece sparire tutte le proprie opere dai muri di Bologna.
In quel caso la molla partì dalla sua opposizione al tentativo operato dalla fondazione Genus Boloniae di esporre alcune delle sue opere in una mostra sulla Street Art.
La cosa fu ritenuta da Blu – che affidò al Collettivo Wu Ming il compito di comunicare le proprie motivazioni – un’intollerabile privatizzazione di opere nate come pubbliche: “La mostra Street Art è il simbolo di una concezione della città che va combattuta, basata sull’accumulazione privata e sulla trasformazione della vita e della creatività di tutti a vantaggio di pochi. Di fronte alla tracotanza da landlord, o da governatore coloniale, di chi si sente libero di prendere perfino i disegni dai muri, non resta che fare sparire i disegni. Agire per sottrazione, rendere impossibile l’accaparramento”.

Quel gesto clamoroso accese per qualche tempo il dibattito su chi possa considerarsi il vero titolare delle opere di street art. Il suo autore? Oppure la collettività? Un potenziale acquirente privato? Le autorità cittadine? Chi può arrogarsi il diritto di deciderne le sorti? Le stesse regole possono poi valere per i murales, spesso esteticamente apprezzabili e apprezzati dai cittadini, tanto quanto per le tag dei writer, spesso percepite da chi vive accanto a quelle scritte, come delle realizzazioni sgraziate e deturpanti? Chi può decidere cosa sia arte e cosa sia sfregio? Le risposte, all’epoca, furono molteplici e spesso contraddittorie fra loro.

L’imposizione di una visione

Prima ancora di sciogliere questi nodi, c’è comunque da considerare che qualsiasi intervento avvenga in uno spazio pubblico, ha oggettivamente delle ricadute su tutti coloro che vivono quello spazio. Proprio per questo gli interventi pubblici sono limitati da regole spesso piuttosto rigide, da una serie complessa di procedimenti e di normative, che passano per l’approvazione delle autorità pubbliche e a volte per il coinvolgimento dei cittadini residenti. Ovviamente le opere di writer e street artist, spesso anche per scelta ideologica degli autori, bypassano quasi sempre questi passaggi.

Una chiave di lettura in merito l’ha fornita un altro noto street artist, Lucamaleonte, l’autore del grande ritratto dedicato a Gigi Proietti apparso a novembre 2020 su un palazzo del Tufello. Lucamaleonte così si esprimeva in una video intervista Rai, riportata anche nell’articolo prima citato: “Parto dal presupposto che per strada sei obbligato a vederlo il mio lavoro, quindi, di per sé è un atto di violenza che si fa verso il pubblico. Tutti dicono ah che bello la Street-art è per tutti, migliora la città, ma migliora la città se la visione dell’artista è una visione che migliora la città, ma non è detto. Tu comunque stai imponendo una tua immagine, stai imponendo un tuo immaginario”.

Questa chiave di lettura vale per qualunque realizzazione appaia in uno spazio pubblico, tanto per i più orridi scarabocchi, quanto per le più straordinarie opere d’arte.
Sia la fontana del Bernini, che la cupola di San Pietro, che una tag di Geko, che il monumento a Garibaldi, che una scritta “Viva la fica” o “Lazio merda”, impongono tutte allo stesso modo sulla collettività l’immaginario dell’autore. Immaginario, ovviamente, molto diverso in un caso o in un altro. Lo stesso vale per la loro negazione: chi cancella quella scritta “Lazio merda”, oppure chi abbatte il monumento a Garibaldi, sta a sua volta imponendo una propria visione del mondo, diversa e in massima parte opposta a quella di chi aveva realizzato l’opera.

La guerra continua

Dunque? Come se ne esce? C’è una morale che si possa trarre? C’è una sintesi che possa essere fatta in merito, valida a sciogliere i nodi e a fornire una strada valida nei diversi casi? Probabilmente, no. Il dibattito sul tema resta apertissimo. Così come resta aperta anche la lotta a colpi di post e di articoli fra Raimo e Retake.

Dopo alcuni giorni di pausa, il 13 febbraio, un nuovo post di Christian Raimo, in cui si accosta la foto di una scritta pubblicitaria e quella di una falce e martello disegnata sul muro, col commento “scritte legali e scritte illegali”, riaccende la contesa.
Poche ore dopo, un ulteriore suo post attacca alcuni articoli apparsi sul Corriere della Sera, che stigmatizzano i writers. Partono subito nuovi commenti e nuove risposte. Tra i commentatori c’è anche chi ricorda il sito “Roma fa schifo”, fustigatore dei nemici del decoro e, proprio per questo, spesso oggetto degli strali di Raimo.
Nel rispondere al commento, l’autore del post ne approfitta per fare chiarezza sul perché di tanta sua attenzione a questo tema: “È che per me questa battaglia è centrale perché si parli di un tema vero come le scritte urbane, per poi parlare di un altro tema. Il controllo”.
Il dibattito e le aree di scontro rischiano ora di allargarsi. L
a guerra continua.

 

[La foto del titolo è stata diffusa dal Comune di Schio su Flickr.com con licenza creative commons]

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