Il Kintsugi e il fico di Monterano

C’era una volta il Kintsugi. Il nome è giapponese e indica un’antica tecnica di restauro. Più che una tecnica, in realtà, è una filosofia di vita. Insegna a riparare con l’oro degli oggetti rotti, evidenziando, anziché dissimulare, i punti di rottura. In realtà, ciò che insegna è accettare la caducità della vita e considerare che proprio in quella caducità risiede la sua bellezza.

Tre sono i punti fondamentali della filosofia Kintsugi, definiti da tre termini giapponesi:
mushin (senza mente), un concetto che esprime la capacità di dimenticare le preoccupazioni, liberandosi dalla ricerca della perfezione;
anicca (impermanenza), cioè accettare che l’esistenza sia transitoria e che tutte le cose siano destinate a trasformarsi e a finire;
mono no aware (empatia): comprendere che solo apprezzando la decadenza delle cose, si arriva ad ammirarne la bellezza.

le rovine di monterano

C’era una volta anche Monterano. Città etrusca prima, romana poi, feudo degli Orsini e, dal Settecento, degli Altieri, è situata su una collina tufacea, a pochi passi da Roma. Ad abbellirne il palazzo signorile, arricchendolo con una fontana, fu chiamato nientemeno che Gian Lorenzo Bernini. Poi, improvvisamente, la storia del paese cambiò, quando, nel 1799, i suoi abitanti si ribellarono alle truppe napoleoniche, scese ad occupare Roma. La rappresaglia francese fu spietata. La città venne distrutta e i pochi superstiti furono costretti a fuggire.

Da allora, Monterano è una delle più famose “città fantasma” italiane. Abbandonata e dimenticata per oltre un secolo, fu il cinema a riscoprirla. Qui vennero girate importanti scene di kolossal internazionali come “Ben Hur” o “Lady Hawke”, ma anche “Guardie e Ladri” con Totò e Fabrizi, “Brancaleone alle crociate” di Monicelli, “La visione del sabba” di Marco Bellocchio e, soprattutto, “Il marchese del Grillo” con Alberto Sordi.

Molti, infatti, conoscono Monterano proprio perché, nella finzione scenica, era in quel paese abbandonato che l’indimenticabile Don Bastiano – il personaggio interpretato da Claudio Bucci – aveva stabilito il suo covo. All’interno dei ruderi della chiesa principale del paese – la chiesa di San Bonaventura – da tempo, era cresciuto un grande fico. Si trattava del famoso “fico di Monterano”, successivamente ribattezzato “Il fico di Don Bastiano”, grazie all’enorme successo ottenuto dal film. Già, perché, proprio lì sotto, Don Bastiano aveva sistemato il suo “trono”, sul quale, nella pellicola, riceveva il suo amico marchese.

Quel fico, dunque, se da una parte era il segno evidente della decadenza e dell’abbandono di Monterano, era anche divenuto il simbolo di quel luogo e il suo principale – o quanto meno il più universalmente noto – motivo di fascino e di vanto. Proprio come accade alle venature in oro che si realizzano attraverso la tecnica del Kintsugi e che rendono unica, inimitabile e preziosissima anche un’insignificante tazza rotta.

Qualche giorno fa, purtroppo, il fico di Don Bastiano è crollato. Un evento naturale, come ne accadono ogni giorno. Perché tutti gli alberi nascono, crescono e, prima o poi, muoiono. È la legge di natura. È la vita. Ma, al tempo stesso, in questo caso, è anche un terribile shock per i tanti amanti di Monterano e per le migliaia di fan del marchese del Grillo, sparsi in tutta Italia. Un trauma di così grande rilievo, da avere ottenuto articoli e foto sui più importanti notiziari locali e nazionali.

una ciotola restaurata con la tecnica del kintsugi

Però, anche stavolta, è la filosofia del Kintsugi a venire in aiuto. L’esistenza è transitoria e tutte le cose siano destinate a trasformarsi e a finire. Anche il fico di Don Bastiano. Ed è solo apprezzando la decadenza delle cose, che si arriva ad ammirarne la bellezza. Perciò, il fascino di Monterano, resta intatto, con o senza il fico. Anzi, forse, potrà essere ulteriormente accresciuto da quel crollo, che rinnova e rende in qualche modo vitale, persino una città morta. Quella città magica di Monterano, che amo e che invito tutti a visitare.

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