La centrale a biomasse è un ramo secco

Roma Capitale deve restituire alla Regione Lazio 7,2 milioni di euro di finanziamenti destinati a un progetto mai completato di produzione di energia elettrica da biomasse utilizzando i residui delle potature del verde pubblico.
L’obbligo, finora oggetto di contenzioso, è diventato definitivo il 7 maggio con una sentenza del Consiglio di Stato che mette la parola fine a una bizzarra vicenda trascinatasi per quindici anni.

Bisogna risalire al 2006 quando il Comune di Roma, guidato allora da Walter Veltroni, e Ama firmarono la prima di quattro convenzioni con la Regione Lazio, allora governatore Pietro Marrazzo, per il cosiddetto “Progetto Biomassa” per la produzione di energia usando i prodotti di risulta della manutenzione del verde urbano, un bacino stimato nel progetto in oltre 320.000 alberi ad alto fusto più le aree verdi.
Tra i promotori rientrava anche l’Università Tor Vergata, nel cui seno era nata negli anni precedenti l’idea di una partnership pubblico-privato per la realizzazione di un impianto a biomassa, con cui fornire riscaldamento ed energia elettrica a livello locale, immettendo le eccedenze di elettricità alla rete pubblica.

Negli anni successivi all’accordo la Regione erogava diversi milioni di euro, con due stanziamenti da 6 milioni più altri singoli di importo inferiore. Importi che negli anni il Comune ha continuato a chiedere e la Regione a erogare nonostante fosse divenuto a un certo punto chiaro che il progetto energetico originario non si sarebbe realizzato, si legge nelle sentenze di primo e secondo grado.
Risale infatti solo al 30 ottobre 2015, sindaco Ignazio Marino, l’atto con cui la Regione guidata da Nicola Zingaretti decideva di revocare una parte del finanziamento per complessivi 4 milioni, con la motivazione che fino a quel momento Roma Capitale si era limitata a inviare il prodotto delle potature a impianti già esistenti, l’inceneritore privato di Termoli in Molise, ossia fuori Regione, o all’impianto di compostaggio di Maccarese, senza cioè produzione di energia.
La revoca parziale diventava poi completa il 23 maggio 2018, sindaca Virginia Raggi, quando la Regione annullava l’intero finanziamento chiedendo al Comune la restituzione di quanto già erogato, 7,2 milioni di euro in tutto.

La questione diventa subito oggetto di ricorso al Tar, col Campidoglio che afferma che il progetto riguardava in generale il miglioramento dell’igiene urbana, su cui per la propria parte il Comune era stato sempre adempiente, e non era invece vincolato all’effettiva produzione di energia, non realizzatasi per motivi indipendenti da Roma Capitale.
Un argomento respinto però dai giudici sia del Tar che del Consiglio di Stato, secondo cui la raccolta e lo smaltimento sono già un obbligo del Comune e i fondi aggiuntivi della Regione avevano senso solo per coprire i costi aggiuntivi legati alla valorizzazione energetica: venuta meno questa, il Campidoglio non aveva titolo a trattenere i fondi già erogati.

La cosa davvero curiosa è in effetti come la vicenda abbia potuto trascinarsi tanto a lungo senza che i nodi venissero al pettine e nessuno dei soggetti coinvolti prendesse atto della realtà, diventando infine oggi l’ennesima tegola sulle finanze del Comune.
Dalle sentenze emerge infatti che già prima del rinnovo della convenzione del 2012 era divenuto chiaro che il progetto originario di impianto a Tor Vergata da 1 megawatt non sarebbe stato realizzabile, tanto che l’Università non aveva rinnovato l’accordo iniziale e l’intesa aveva “sterzato” sullo studio di 5-15 impianti di piccola taglia (80 kilowatt elettrici). Una circostanza che secondo il Tar già di per sé avrebbe giustificato la revoca del finanziamento.
Invece il Comune, allora guidato da Gianni Alemanno, e la Regione, governata da Renata Polverini, avevano ugualmente siglato il quarto accordo e negli anni successivi il Campidoglio aveva continuato a richiedere e la Regione a erogare fondi per milioni di euro. Fondi che Roma Capitale usava per scopi diversi da quelli previsti dal progetto, ossia per la gestione ordinaria delle potature e relativo smaltimento, senza “filiera corta” né recupero di energia.

Solo nel 2015, un decennio dopo l’avvio del progetto, la Regione si decideva a tirare il freno. Solo in quell’occasione, interpellata, l’Università spiegava – si legge sempre nelle sentenze – che il progetto di impianto era saltato perché si era rivelato sbagliato uno dei presupposti, quello sulla quantità di biomassa effettivamente disponibile con continuità dalle potature per rendere sostenibile l’investimento.
Le sentenze non ne fanno cenno, ma sul cambio di scenario potrebbe aver pesato anche il mutamento della normativa: il primissimo studio di fattibilità messo a punto da Tor Vergata stimava infatti di alimentare un impianto da 5 megawatt con 40-50.000 tonnellate all’anno di legna derivanti dalla manutenzione di 102.000 alberi, ma presupponeva anche ricavi dalla produzione di energia nell’ordine di 175 euro per megawattora, possibili solo con gli incentivi dei Certificati Verdi, meccanismo però venuto a scadenza a fine 2012.
Comunque stiano le cose, i fatti sono poi andati diversamente e il Comune tra le sue tante difficoltà dovrà ora restituire anche questi 7,2 milioni. Piove sul bagnato, insomma. Speriamo che non caschino anche i rami.

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