Lupi biancazzurri e Aquile giallorosse

Ve lo ricordare Pippo Franco nel film “Il tifoso, l’arbitro e il calciatore”? È una commedia all’italiana degli anni Ottanta, in cui l’attore romano – che nella pellicola ha il ruolo di figlio di uno sfegatato tifoso romanista, ma al tempo stesso di fidanzato della figlia di un altrettanto sfegatato tifoso della Lazio – per non scontentare nessuno, durante un derby, si veste con una giacca e un cappellino double-face, giallorosso su un lato, biancazzurro sull’altro e, rigirando di volta in volta l’abito, corre a perdifiato dalla curva nord alla curva sud, per fare il tifo, accanto prima al suocero, poi al genitore, alternativamente per entrambe le squadre.

È una vicenda rocambolesca, ma che ha molte analogie con quella realmente vissuta da alcuni giocatori, a volte diventati vere e proprie bandiere di una delle due squadre capitoline, nonché capitani vuoi della Roma o vuoi della Lazio, ma ritrovatisi, poco tempo dopo, dall’altra parte della barricata, a vestire una maglia di colore diverso. Da Fulvio Bernardini a Ciccio Cordova, da Lionello Manfredonia ad Angelo Peruzzi, senza dimenticare Sinisa Mihajlovic, vi raccontiamo cinque casi fra i più clamorosi.

Fulvio Bernardini

Romano de Roma, classe 1905, destinato a una fulgida carriera, prima come giocatore e poi come allenatore – ruolo nel quale fu il primo a vincere lo scudetto con due squadre diverse (Fiorentina e Bologna), allenando per tre anni (dal 1974 al 1977) anche la nazionale italiana – Fulvio Bernardini esordì nella Lazio nel 1919, in un calcio ancora pioneristico, nel quale si poteva iniziare la carriera come portiere, per diventare uno dei più forti attaccanti italiani appena due anni dopo, nel 1921.

Nella stagione 1922-23, proprio con la Lazio, di cui nel frattempo era diventato capitano, arrivò a giocarsi la finale tricolore, poi persa contro il Genoa. Nel 1926, Bernardini decide però di lasciare Roma per Milano, sponda Inter. Anche perché i nerazzurri gli offrivano, oltre a un posto in squadra, anche un buon posto in banca e la possibilità di laurearsi in economia all’Università Bocconi, a spese della società.

Trasferitosi all’ombra della Madonnina, nei suoi anni milanesi, Bernardini avrà occasione di scoprire un giovanissimo talento della squadra Primavera, un sedicenne all’epoca del tutto sconosciuto, di nome Giuseppe, di cognome Meazza, di ruolo attaccante e che, grazie a lui, che lo segnalò all’allenatore interista, verrà ben presto aggregato alla squadra maggiore.

Vede Bernardini, gli altri non possono arrivare alla concezione che lei ha del gioco e finiscono per trovarsi in soggezione, dovrei chiederle di giocare meno bene

Nel 1928 ecco però che avviene il passaggio più clamoroso. Bernardini torna nella capitale, ma stavolta per vestire la maglia della Roma. Una maglia che non abbandonerà più per undici anni, divenendo l’anima, il simbolo, il cuore, di quella Roma testaccina, di quella società allora appena nata, di casa sul Campo Testaccio, che in diverse occasioni arrivò a sfiorare la vittoria nel campionato italiano.

Sarà un caso, una coincidenza, ma, subito dopo il saluto di Bernardini ai colori giallorossi, avvenuto nel 1939, anche il Campo Testaccio chiuderà i battenti, per concludere la sua storia, rimasta ancora oggi leggendaria, e per poi essere demolito definitivamente nel 1940.

Unico cruccio di una carriera mirabile, fu, per Fulvio Bernardini, quello di non essere stato convocato nella nazionale italiana vincitrice dei mondiali di calcio del 1934 e 1938. La motivazione che diede a quella scelta l’allenatore della nazionale Vittorio Pozzo, ha dell’incredibile.

Così infatti disse Pozzo, al momento delle convocazioni, all’allora capitano della Roma: “Vede Bernardini, lei gioca attualmente in modo superiore, in modo perfetto dal punto di vista della prestazione individuale. Gli altri non possono arrivare alla concezione che lei ha del gioco e finiscono per trovarsi in soggezione, dovrei chiederle di giocare meno bene. Sacrificare lei o sacrificare tutti gli altri? Lei come si regolerebbe al mio posto?”.

Franco Cordova

Quello di Franco Cordova, detto “Ciccio”, classe 1944, è in assoluto il più scandaloso e polemico dei passaggi di maglia fra ex giocatori romanisti poi divenuti laziali. Nato a Forlì da famiglia napoletana, Cordova arrivò a Roma, sponda giallorossa, nel 1967, dopo aver vinto uno scudetto e una Coppa Intercontinentale, due anni prima, con la grande Inter di Helenio Herrera.

Presidente della Roma di quegli anni era Alvaro Marchini, ricco imprenditore edile, zio di quell’Alfio che alcuni anni or sono si sarebbe candidato a sindaco di Roma, ma soprattutto padre di una bella ragazza, tale Simonetta, detta Simona, all’epoca una giovane aspirante attrice, destinata a diventare una star della tv degli anni ottanta e novanta.

Cordova se ne invaghisce subito, al punto che fra i due nasce una storia, che, negli anni settanta, li porterà a convolare a nozze. Questo però non resterà l’unico matrimonio Vip nella vita di Ciccio Cordova. Nel 2001, l’ormai ex calciatore, diverrà anche il marito dell’attrice Maurisa Laurito, una donna conosciuta proprio grazie al giro di Simona Marchini e, come lei, facente parte della squadra di attori e comici radunatasi attorno a Renzo Arbore, ai tempi della trasmissione “Quelli della notte”.

Ma torniamo alla fine degli anni sessanta e alla Roma di quel periodo. Di quella Roma, infatti, Ciccio Cordova diviene ben presto il leader, vincendo una Coppa Italia nel 1969, trionfando nella Coppa Anglo-Italiana del 1972 e indossando la fascia da capitano, senza lasciarla più fino al 1976.

Alla prima partita con la Lazio non volevo neanche mettere la maglia, me la buttarono sulle spalle mentre uscivo dal tunnel degli spogliatoi, per ultimo

Intanto, presidente della Roma era diventato Gaetano Anzalone, che aveva sostituito Marchini alla guida della società. Anzalone, vuoi per l’età del giocatore che avanzava, vuoi anche per il fatto di non avere con lui nessun tipo di legame affettivo e familiare, nell’estate del 1976 decide di vendere Cordova al Verona.

Apriti cielo! Ciccio Cordova vive questo trasferimento come una vera e propria offesa personale, come un insulto. Le cronache di quelle settimane traboccano di polemiche roventi fra il giocatore e la società, con pagine e pagine dedicate alla querelle dai principali quotidiani sportivi italiani.

Per tutta risposta, Cordova decide perciò di rifiutare il trasferimento. Non solo. Per ulteriore smacco e sgarbo nei confronti di Anzalone, decide di offrirsi ai cugini, agli odiati laziali, finendo così per riuscire a rimanere a Roma, ma stavolta vestendo la maglia biancoceleste. Alla Lazio resterà per tre stagioni di fila, fino al 1979.

Anni dopo, in alcune interviste, così giustificherà la propria scelta: “Io non volevo spostare la famiglia, così per ripicca pretesi la cessione alla Lazio. Alla prima partita con loro non volevo neanche mettere la maglia, me la buttarono sulle spalle mentre uscivo dal tunnel degli spogliatoi, per ultimo”.

La fine della carriera di Cordova, che ebbe anche modo d’indossare la maglia azzurra della nazionale, sarà però poco gloriosa. Passato all’Avellino nella stagione 1979-80, coi biancoverdi irpini giocherà solo cinque partite, per poi venire coinvolto nello scandalo del calcio scommesse che travolse il campionato di quell’anno.

Condannato a una pesante squalifica, ormai trentaseienne, decise perciò di rendere la sospensione definitiva e di appendere gli scarpini al chiodo, non tornando mai più a calcare i campi di calcio.

Lionello Manfredonia

Classe 1956, originario del quartiere di Monte Mario, Lionello Manfredonia cresce calcisticamente nel vivaio della Lazio, con cui vince un campionato Primavera. Esordisce in prima squadra nel 1975, al posto dell’assente Pino Wilson, capitano di quella Lazio, la cui ossatura era ancora in larga parte la stessa che aveva conquistato il suo primo scudetto, meno di due anni prima, nella stagione 1973-74.

Dall’anno successivo, Manfredonia diventa titolare inamovibile della difesa biancoceleste, riuscendo ad ottenere anche la maglia della nazionale e a partire per i mondiali del 1978 in Argentina, dove però alcuni dissapori scoppiati con il CT azzurro Enzo Bearzot gli impedirono di proseguire anche in seguito il suo sogno azzurro.

Nel 1980 arriva il primo trauma della sua carriera: con il compagno Bruno Giordano, viene coinvolto pesantemente nel grande scandalo del calcio scommesse. Risultato colpevole, ne subirà pesanti conseguenze, conseguenze che porteranno la Lazio alla retrocessione a tavolino in serie B e Manfredonia a una lunga squalifica.

Volevo tornare a casa, a Roma, ho accettato l’offerta dei giallorossi ed ho sbagliato

Tornerà a giocare nella stagione 1982-83, in serie B. Sono anni altalenanti per la Lazio, che, dopo essere riuscita a tornare nella massima serie, sprofonderà di nuovo in quella cadetta nella stagione 1984-85, chiusa all’ultimo posto. La dirigenza biancoceleste decide a quel punto di vendere i suoi giocatori migliori e Manfredonia si ritroverà a Torino, a vestire per due anni la maglia bianconera della Juventus, con cui vincerà uno scudetto e una Coppa Intercontinentale.

Ma è il 1987 l’anno del “tradimento”. Comprato dalla Roma per la sostanziosa cifra di tre miliardi di lire, i nuovi tifosi non gli perdoneranno il suo passato biancoceleste. In curva sud si forma persino un gruppo organizzato Anti Manfredonia. “Volevo tornare a casa, a Roma, ho accettato l’offerta dei giallorossi ed ho sbagliato” dirà in seguito il giocatore. Il momento più amaro è forse quello del derby di quell’anno, quando, entrato in campo, viene fischiato sonoramente da entrambe le curve.

Nonostante i fischi e la disapprovazione di molti tifosi, Manfredonia completa due stagioni alla Roma. A pochi mesi dall’inizio della terza, il 30 dicembre 1989, durante l’incontro Bologna-Roma, improvvisamente, però, si accascia a terra nel bel mezzo della gara, vittima di un arresto cardiaco. Il primo a soccorrerlo sarà proprio il suo ex compagno di squadra alla Lazio e amico fraterno Bruno Giordano, da poco passato al Bologna.

Si riprenderà, ma la sua carriera calcistica finisce quel giorno, a soli trentatré anni. “Per me fu una tragedia inaspettata – ebbe a dire, ripensando a quel momento – ma dopo ho fatto tutti gli esami e non è emerso nulla. Ero perfettamente sano. Ho avuto uno svenimento, sono stato giorni in coma in ospedale, quando mi sono risvegliato la mia vita era cambiata completamente”.

Angelo Peruzzi

Per diversi anni portiere della nazionale italiana di calcio, con cui ha conquistato – da riserva – il titolo di campione del mondo nel 2006, Angelo Peruzzi è anche l’unico estremo difensore che si sia trovato a difendere dagli assalti avversari, sia la porta giallorossa che quella biancoceleste.

Classe 1970, nato in provincia di Viterbo, è con la Roma che esordisce in serie A, nella stagione 1987-88, a soli diciassette anni, sostituendo il titolare Franco Tancredi, colpito da un petardo durante l’incontro Milan-Roma.

Alla Roma rimane fino al 1991, anche se con l’intermezzo di un anno a farsi le ossa in prestito al Verona. Tutto sembra far prevedere una grande carriera in giallorosso, ma un’inattesa condanna per doping lo fermerà per un anno dall’attività agonistica.

È stata la peggior stronzata che ho fatto nel mondo del calcio. Ho pagato con un anno di squalifica ed è stato giustissimo

“È stata la peggior stronzata che ho fatto nel mondo del calcio – disse poi su quel momento della sua carriera – il Lipopill me lo diede un compagno, perché venivo da uno stiramento e non volevo farmi di nuovo male, ma quando la Roma mi disse di fare ricorso dissi di no. Ho sbagliato, ho pagato con un anno di squalifica ed è stato giustissimo”.

Scontata la squalifica, nella stagione 1991-92 la Roma decide di venderlo alla Juventus. In bianconero Peruzzi trascorrerà diversi anni, fino al 1999, vincendo campionati, una Champions League, una Coppa Intercontinentale e divenendo, ben presto, portiere titolare anche della nazionale italiana.

Dopo un anno passato all’Inter, nella stagione 2000-2001, il ragazzo cresciuto nelle giovanili della Roma, fa per la prima volta il suo ingresso all’Olimpico con la maglia della Lazio, squadra con cui resterà fino alla fine della sua carriera, avvenuta nel 2007, conquistando una Supercoppa Italiana e una Coppa Italia.

A differenza di quanto accaduto a molti suoi predecessori, per Peruzzi il passaggio in biancoceleste di lui, ex romanista, non creerà particolari imbarazzi o scie polemiche. Anzi, il rapporto resterà sereno con entrambe le squadre, tanto che sarà proprio dopo un derby Roma-Lazio che Peruzzi deciderà di annunciare la fine della sua carriera, sciogliendosi poi a fine partita, lui titolare biancoceleste, in un lungo abbraccio col romanista Daniele De Rossi, suo grande amico.

Sinisa Mihajlovic

Il vulcanico Sinisa Mihajlovic, attuale allenatore del Bologna, nato a Vukovar, nell’odierna Serbia, nel 1969, arriva a Roma nel 1992, quando ad allenare i giallorossi c’è l’altrettanto vulcanico suo connazionale Vujadin Boskov. Boskov lo ha notato giocare nello Stella Rossa, apprezzandone le doti calcistiche e balistiche, vista la sua straordinaria abilità e precisione nei calci di punizione, grazie a cui aveva conquistato la Coppa dei Campioni del 1991.

In giallorosso Sinisa ci rimane per due anni, ma con alterni risultati. Alla seconda stagione nella Roma non c’è più Boskov ad allenarlo, è arrivato Carletto Mazzone, un allenatore che non riesce ad apprezzarne e a valorizzarne al meglio l’aspetto tattico, ritenuto decisamente inferiore rispetto alle sue indubbie doti tecniche. Si fa perciò strada, ben presto, l’idea di cederlo.

Venduto alla Sampdoria nel 1994, Mihajlovic a Genova comincia a crescere nel rendimento. Nel 1998 arriva così il momento del suo ritorno nella capitale, stavolta sulla sponda laziale. È l’inizio di un idillio che nasce subito fra il giocatore serbo, la squadra e i suoi tifosi. Un idillio che lo porterà anche a vincere il secondo scudetto della storia biancoceleste, nella stagione 1999-2000, oltre a una Coppa delle Coppe, una Supercoppa Europea, due Coppe Italia, due Supercoppe Italiane.

Io sono biancoceleste. Per quello che ho vinto e per quello che mi hanno dato i tifosi della Lazio. Rispetto la Roma e i suoi sostenitori, ma io sono laziale

Il carattere rude e focoso di Mihajlovic lo porterà in quegli anni anche al centro di alcuni episodi piuttosto discussi. Nel 2000, durante l’incontro Lazio-Arsenal, viene accusato d’insulti razzisti rivolti verso il calciatore di colore Patrick Vieira. Tre anni dopo subirà una lunga squalifica per aver sputato e calpestato il giocatore Adrian Mutu, in una gara contro il Chelsea. Note sono poi le sue passioni patriottiche, in difesa delle posizioni della Serbia, che lo hanno portato a solidarizzare anche con personalità coinvolte in crimini di guerra.

Nonostante tutto questo, o forse anche grazie a tutto questo, il legame fra Sinisa Mihajlovic e i tifosi della Lazio non è però mai venuto meno, consolidandosi nel tempo e restando vivo anche quando, negli ultimi due anni di carriera, il calciatore si è trasferito all’Inter.

“Io sono biancoceleste – ha ribadito a fine carriera – per quello che ho vinto e per quello che mi hanno dato i tifosi della Lazio. Rispetto la Roma e i suoi sostenitori, ma io sono laziale“.

Un legame con la Lazio che è ancora oggi molto solido, tanto che, ancora poche settimane fa, ospite di una nota trasmissione tv, di fronte a un altro ospite che si dichiarava romanista, Mihajlovic non ha potuto fare a meno di fulminarlo con una battuta al veleno, degna di un film di Billy Wilder: “Nessuno è perfetto!”.

 

 

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