Cultura nel guano

Se Parigi val bene una messa, in una fresca serata romana di fine agosto si può ben affrontare qualche intoppo per andare ad ascoltare il trio di Stefano Bollani nella cavea dell’Auditorium. Tanto più se ti hanno pure regalato i biglietti.

Per cui arrivi, parcheggi la macchina all’ombra di uno dei rigogliosi arbusti cresciuti spontaneamente sui fertili marciapiedi dell’ex Villaggio Olimpico, attraversi uno dei passaggi pedonali con prato che costellano l’area e ti metti in coda in attesa che ti controllino l’ampia mole documentaria richiesta dalle vigenti regole sanitarie – registrazione, biglietti, green pass, documento. Se ne occupa un gruppo di giovani addetti all’ingresso, che emanano un’aura di precariato e salari da pochi euro l’ora. Qualcuno ha un giubbotto catarifrangente tipo facchino dell’Ikea, qualcuno neanche un tesserino di riconoscimento e tu ti chiedi: ma se mi mettessi col cellulare a chiedere alla gente di mostrarmi carta d’identità e green pass qualcuno se ne accorgerebbe?

Infine, superato il doppio filtro ed entrati nella cavea, cerchi i tuoi posti e li trovi… ricoperti di un tappeto di guano scagazzato dalla colonia di piccioni che popola l’imponente “scarabeo” di Renzo Piano che sovrasta le scalinate.

Basterà il pronto intervento di addetto con pezzetta e spruzzino per sanificare? Tu comunque ti metti due A4 – biglietto e registrazione – sotto il di dietro e ti prepari ad assistere al concerto tutto impettito, con la schiena dritta, concentrato metà sulla musica e metà che non ti scappi di poggiare inavvertitamente le mani sulla gradinata. E intanto che aspetti l’arrivo dei musicisti sul palco cazzeggi col cellulare, ti imbatti nella sindaca Virginia Raggi che celebra l’ennesimo successo della sua giunta contro gli “zozzoni” e ti sovviene che Roma Capitale nomina presidente e tre dei cinque membri del CdA di Musica per Roma, la Spa comunale che gestisce l’Auditorium (gli altri due sono uno della Regione Lazio e uno della camera di Commercio). Ne vale la pena, perché il concerto è bellissimo, ma era proprio necessario?

“L’ennesima prova che la Raggi ha fallito”, direbbe qualcuno con qualche ragione, certo. Ma in realtà mi pare che il problema sia strutturale e riguardi più in generale la considerazione che la politica (tutta) e la borghesia italiana nutrono per la cultura. Un mese fa il ministro Dario Franceschini, introducendo la cerimonia per il G20 della Cultura al Colosseo, ci ha fatto intendere che la cultura è un veicolo di promozione turistica. E poiché Franceschini parlava a nome del governo Draghi, ma ormai è quasi ministro dei Beni culturali a vita e non risulta che gli siano mai state rivolte critiche né dall’opposizione né da parte del mondo imprenditoriale, possiamo supporre che si tratti di un orientamento generale largamente condiviso.

I lavoratori dello spettacolo, di cui si è tanto parlato in questo anno e mezzo, potrebbero tranquillamente essere inquadrati nel contratto nazionale del turismo aggiungendo nelle declaratorie attori, musicisti e dipendenti dei musei accanto a baristi, cameriere ai piani e bagnini. L’idea che la cultura possa avere un valore non economico è stata relegata nella soffitta dei vecchi arnesi dello statalismo novecentesco. Una scelta mascherata con la più pudica osservazione che bisogna investire sulla cultura perché “la cultura fa anche PIL” (sottinteso che, se non facesse PIL, bisognerebbe chiudere teatri e musei).

Se non fa PIL bisogna trarne le dolorose conseguenze, come ha fatto la scorsa primavera la Provincia di Salerno, bandendo un concorso per restauratori “iscritti all’apposito albo e abilitati all’esercizio della professione secondo l’articolo 29 del Codice dei Beni Culturali, con specializzazione in Manufatti dipinti su supporto ligneo e tessile”.
Le proposte progettuali e la realizzazione degli interventi – recitava il bando – non dovranno comportare oneri per l’Ente e pertanto saranno realizzate a cura e spese del restauratore”, ma la Provincia “oltre a rilasciare un riconoscimento di merito, s’impegna a citare il nominativo del restauratore affidatario, così come indicato dal professionista, nelle eventuali pubblicazioni e nelle didascalie a corredo ai dipinti”.

La cultura che fa PIL è quella dei grandi flussi di turisti gestiti dai tour operator, dell’assalto ai mega-musei trasformati in centri commerciali, con gruppi di turisti vocianti stipati nella stessa sala e le guide che parlano sottovoce al microfono collegato con gli auricolari dei loro “clienti” in modo che le loro voci non si sovrappongano, mentre altri gruppi spingono per entrare.
Non è – tanto più con la pandemia – quello di Bollani, delle orchestre sinfoniche, del jazz, di Pirandello e di Shakespeare o del piccolo museo di provincia. Perciò può capitare che uno dei templi, appunto, della cultura nazionale si ritrovi al centro di un quartiere in abbandono, con lavoratori che l’altra sera erano all’Auditorium e il prossimo fine settimana magari verranno sbattuti all’Olimpico o alla fiera della porchetta di Ariccia e dunque fanno quel che possono e può persino capitare di trovare i tuoi posti a sedere coperti di cacca. Nessuna sorpresa. La ragione è meramente economica: prevenire “incidenti” come questo costa e per questa politica il concerto di Bollani non giustifica la spesa che servirebbe a garantire lo stesso decoro che la politica riserva, almeno ci prova, alla cultura che fa PIL.

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