Quei musei dentro casa
Qualche tempo fa mi è capitato d’imbattermi in un titolo di giornale: “Aveva un museo in casa con reperti etruschi e romani. Fermato tombarolo”. Pare che tutto sia stato scoperto per caso, a seguito di un sequestro giudiziario. Gli agenti, andati lì per il pignoramento, hanno trovato, in una casa di Monteverde, una serie di teche, con anfore, bassorilievi, monete antiche. Un vero e proprio piccolo museo, che è costato al proprietario una denuncia.
Chi pensa che quello sia un caso isolato, forse frequenta poco le ville e i giardini dell’hinterland romano. Magari non a Monteverde, ma nelle zone più periferiche della città, in quei quartieri fatti di ville e villette con giardino, sparse nei prati, o esposte nei salotti buoni, ci si imbatte spesso in colonne e capitelli, anfore e monili, che, solitamente, il padrone di casa dichiara di avere scoperto per caso, facendo dei lavori, o arando il prato.
Quasi sempre è davvero così. Perché, se quello di tombarolo, inteso come “professione”, cioè l’arte di chi svaligia tombe e ruderi per motivi di lucro, di ricettazione, o per abbellire la propria abitazione, resta un lavoro per pochi, di nicchia, assai più numerosi sono i “tombaroli per caso” capitolini, che in modo fortuito si trovano a scoprire reperti millenari.
Si tratta di un fenomeno che la Soprintendenza alle Belle Arti conosce da anni e che, implicitamente, tollera, anche per ragioni economiche. Scoprire un reperto, infatti, impone un successivo lavoro di rilievo e di monitoraggio, con la possibilità di dover poi approfondire le ricerche ed effettuare degli scavi. Tutte cose costose per l’erario.
Perciò, tutto sommato, meglio chiudere un occhio: il cittadino, in tal modo, è contento perché può abbellire la sua casa e le autorità pubbliche evitano esborsi imprevisti, ufficialmente senza sapere nulla in merito ai ritrovamenti e, dunque, con la coscienza perfettamente a posto.
È questa la storia, quasi sempre uguale, che mi sono sentito raccontare da molti residenti nella periferia di Roma: “Volevo piantare i pomodori e ho trovato un pezzo di anfora. Ho chiamato le Belle Arti, ma mi hanno detto di tenermi la cosa per me, che non hanno mezzi per fare scavi qui, così evitano anche di mettermi sottosopra il giardino”.
Saranno andate davvero così le cose – almeno nella maggior parte dei casi – o chi mi ha raccontato queste storie, cioè gli scopritori di quei reperti, voleva solo liberarsi la coscienza, narrando cose inventate, pur di non fare la figura del ladro di opere d’arte? Certo è strano che la storia narrata sia quasi sempre la stessa, da parte di tutti: persone diverse, che non si conoscono e vivono in diverse aree di Roma.
Il caso più eclatante mi è accaduto pochi anni fa, in una zona periferica della città, una collinetta adiacente il Gra che, per tenere fede al patto fatto a suo tempo coi proprietari della villa, preferisco non definire ulteriormente. Una coppia di anziani e gentilissimi signori, mi fecero visitare il loro giardino. All’interno vidi una sorta di pronao con delle statue di ottima fattura, probabilmente appartenenti a un tempio o ad antiche terme romane.
Anche nel loro caso, la storia era la stessa: “Facevamo dei lavori in giardino e, all’improvviso… Abbiamo avvertito le Belle Arti ma ci hanno detto di fare finta di niente… E così…” A sentire quegli anziani signori, non è da escludere che l’intera collinetta custodisca un grande complesso di epoca romana. Che, dunque, non si tratti di una collina naturale, ma della terra che si è raccolta nei secoli, coprendo palazzi, terme ed altre costruzioni.
Non molto distante c’è una spianata incolta. Un luogo che finisce per diventare un acquitrino alle prime gocce di pioggia. Si vocifera che ciò accada perché, sotto quel prato spontaneo, sia sepolto uno stadio romano, le cui pietre impediscono il drenaggio del terreno. Una sorta di Circo Massimo di periferia.
Anche in quel caso, la storia che si narra in giro è la stessa: “Lo Stato sa, ma non ha i soldi per fare i lavori”. Se sia vero non saprei. Certo, le belle colonne che accolgono i clienti all’entrata di un attiguo ristorante, alimentano qualche sospetto.
Dunque, paradossalmente, la maggiore speranza, nelle zone periferiche della città, per riportare alla luce e alla fruizione pubblica gli antichi reperti, è quella di augurarci che vengano ritrovati durante la costruzione di qualche nuovo quartiere o di un grande centro commerciale.
Sì, proprio quel tipo di lavori che un tempo si additavano come la principale causa della distruzione di molti reperti di valore. In quel caso, infatti, i controlli sono più stringenti e chiudere un occhio diventa più difficile.
È esattamente quanto è accaduto a Porta di Roma, con la scoperta di mosaici e altri oggetti di pregio, oggi visibili nel museo “Fidenae”, appositamente aperto al pubblico, tra le centinaia di negozi di quella galleria commerciale.