Du’ pinze e ‘na tenaja

È il motto romanesco dedicato ai tirchi, agli avari. Essere “du’ pinze e ‘na tenaja”, nella Città Eterna, è sinonimo di essere un avaro degno del protagonista dell’omonimo testo di Molière. Uno zio Paperone capitolino. Ma cosa c’entra l’avarizia con gli strumenti da lavoro di un operaio, di un muratore, di un artigiano? In poche parole: perché a Roma si dice proprio così?

Andiamo per ordine. Intanto, originariamente le pinze erano tre. Anzi qualcuno continua a dire così: “tre pinze e ‘na tenaja”. Ma d’altronde, visto che si parla di avarizia, risparmiarne una e passare da tre a due ci sta tutta.

Poi c’è da aggiungere che in realtà, originariamente le pinze non erano pinze, ma erano pigne. Poi però, visto l’accoppiamento con le tenaglie, per assonanza le pigne si sono trasformate in pinze. Ma qui il gioco si complica ulteriormente. Perché se non si capisce che rapporto abbiano pinze e tenaglie con l’avarizia, si capisce ancora meno l’accoppiamento con le pigne.

Per fortune a spiegarci bene il significato di questa espressione, ci pensò nientemeno che il più romano dei romani: Giuseppe Gioacchino Belli, che così spiegò il mistero sul perché si usa questo motto: “Si suol dire agli avari, imperocché la pigna cede a stento il suo frutto, e la tenaglia ritiene fortemente ciò che ha già preso”.

Dunque ecco spiegata la ragione: sia la pigna che la tenaglia trattengono le cose. Come anche la pinza d’altronde. Il che spiega il motivo del successo ottenuto facilmente dalla sostituzione delle pigne con delle pinze, cosa che, pur sostituendo la parola, non ne cambia il significato metaforico.

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