L’anima della mejo mortazza!

Può Roma forgiarsi di un titolo che notoriamente spetterebbe a Bologna? La mortadella, si sa, è infatti una specialità felsinea. Di qualcosa di simile si parla fin dai tempi degli etruschi, grazie alla particolarità dei querceti e delle ghiande presenti in Emilia, che rendevano la carne di maiale di quelle zone particolarmente pregiata.

Sì, è vero, la mortadella non nasce a Roma. Il nome mortadella però, è sicuramente romano, Pare derivi dal termine “mortarium”, il mortaio che veniva utilizzato per schiacciare la carne di maiale. Altri, invece, fanno riferimento al “farcimen mirtatum”, un insaccato suino, sempre di epoca romana, aromatizzato con bacche di mirto.

Già in alcuni testi del Trecento si parla di mortadella. Il suo padre ufficiale, colui al quale viene attribuita la sua prima ricetta completa, è però Cristoforo di Messisbugo, un cuoco che lavorava presso la corte d’Este, a Ferrara, autore di un antico trattato di gastronomia, pubblicato nel 1549, nel quale, tra le mille prelibatezze, vengono anche elencate le fasi per la lavorazione di quell’insaccato.

Se oggi la mortadella è il pasto economico per antonomasia, a quei tempi veniva invece considerato un prodotto che solo nobili e ricchi borghesi potevano permettersi. I costi della materia prima erano, infatti, molto alti, il tempo di preparazione abbastanza lungo e richiedeva il ben remunerato lavoro di artigiani altamente specializzati.

Un viaggiatore inglese del tardo Seicento, così descriveva il loro lavoro: “Tagliavano la carne di maiale in piccoli pezzi, lasciando intuire che non sceglievano una parte precisa e dopo averla condita con sale comune, pepe, agli e un po’ di salnitro con essa riempivano budella di manzi. E dopo avere lasciato queste mortadelle per circa due giorni in salamoia le fanno bollire in acqua, avendo cura di cuocerle piuttosto poco che tanto. Poi le appendono alla cappa del camino fino a che siano asciutte. Così confezionate si conservano bene per un anno o due”.

Già nel 1661, il cardinale Farnese emise un bando che codificava la produzione della mortadella, fornendo uno dei primi esempi di disciplinare simile a quelli attuali dei marchi DOP e IGP. E qui ci avviciniamo al nocciolo di un problema che ha aperto un “fronte di guerra” fra Roma e Bologna e creato due ben distinte scuole di pensiero, di cui le due città sono rispettivamente le capofila.

La domanda delle domande, infatti, oggi è: la vera mortadella è con o senza i pistacchi? Una risposta non c’è. Per quanto i puristi emiliani rifuggano l’aggiunta dei pistacchi, oggi il disciplinare di produzione della Mortadella Bologna IGP ammette sia l’una sia l’altra versione. Dunque, se nel bolognese il pistacchio è praticamente messo al bando – considerandolo una forma di “eresia” – a Roma, la nota verde dei pistacchi nella mortadella è un must irrinunciabile.

Per questo, rapidamente, Roma è diventata la vera capitale della mortadella “bianca rosa e verde”, spodestando l’Emilia in questo particolare settore. Per questo “pizza e mortazza” – con la mortazza rigorosamente aromatizzata al pistacchio – è una specialità romana, anche se poi imitata e ripresa in altre zone d’Italia.

Una specialità che è anche diventato il principale spuntino popolare, il pasto per antonomasia degli operai e dei manovali, da quando, verso la fine dell’Ottocento, con lo sviluppo dell’industria salumiera, la mortadella è diventata un alimento sempre meno costoso e quindi accessibile a tutti. Un piatto un tempo riservato ai re, che oggi è patrimonio comune e “interclassista” del nostro paese, ma amato in tutto il mondo.

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