Il podere delle parole

Il sistema agroalimentare rappresenta un’arena competitiva per marchi, forme dietetiche e gastronomiche, percorsi di innovazione, tecnologie e approcci di sostenibilità. Questa concorrenza stimola un dibattito popolato da slogan e parole d’ordine spesso reiterate a fini identitari sia da chi intende rivendicare un percorso peculiare, sia da chi è privo di fogge caratterizzanti e si vede costretto a mutuare formule ammiccanti. Si produce così un’eco che perde di vista senso e valori che si intendono trasmettere, laddove esistenti. Una rassegna dei termini e delle etichette più (ab)usate per definire gli orientamenti alla produzione e circolazione del cibo intende leggere tale linguaggio.

 

L’agricoltura – e il cibo che ne è il principale portato – è dal suo sorgere coltivata anche dal linguaggio e i suoi capisaldi essenziali sono illuminati da parole concise quanto inequivoche: terra, acqua, sole, grano, riso, cece, pollo, bue, porco, vite, vino, olio, pane. Brevità che è sollecitudine se è in gioco la sopravvivenza, ma che esprime anche familiarità e prontezza cognitiva in relazione al proprio nutrimento e all’ambiente in cui si esercita l’attività primaria. Immediatezza, come mamma e papà.

La vicenda si è complicata con la graduale esperienza fatta con piante e cibi di provenienza esotica, plasmandoli alla conoscenza con quanto di più prossimo e rassicurante. Dopo la conquista delle Americhe, in Europa – e in italiano – arrivano il granoturco, il peperone o il pomodoro, oppure il porcellino d’India (che in inglese è il maialino di Guinea, come in francese il tacchino originario del continente americano è divenuto la dinde, cioè dall’India, e le patate sono le mele della terra – pommes de terre): un misto di fattezze e provenienze note per digerire la novità, allungando i lemmi e le espressioni come fossero ponti a colmare le distanze. Che poi, queste novità sono state effettivamente assimilate nella cultura e nell’organismo umano soltanto nel tempo: granoturco (il conciso mahís delle Antille) e patata (la succinta papa quechua) si affacciano nell’alimentazione europea a distanza di più di un secolo dal loro approdo, come alimenti sostitutivi del grano nella dieta dei poveri; e lo stesso vale per il pomodoro, mentre i fagioli furono più rapidi ad acclimatarsi sulle nostre tavole per la somiglianza botanica e d’uso con i legumi nostrani.

Le parole sono d’altronde strumento di appropriazione: culturale quando si deve fare i conti con le novità, ma anche economica, concettuale e (geo)politica quando diventano strumento di espropriazione o di cosmesi.

Fino a tempi recenti, diciamo il Secondo Dopoguerra, l’agricoltura aveva le sue narrazioni, dovendo promuoversi come sorgente di cibo a fini di legittimazione sociale, ma senza particolari appellativi (e) distintivi: bastava discernere la casta tra servi, contadini e latifondisti. Quella era e quelli erano, agricoltura e agricoltori, investiti del compito primario di sfamare le genti e alimentare i mercati.

Il primo vestito ideologicamente concepito per l’agricoltura è stato forse quello della Rivoluzione Verde. Con l’obiettivo di aumentare la produzione alimentare dell’allora Terzo Mondo in via di decolonizzazione, la si ancorava al modello industriale, di cui mutuava il tema della Rivoluzione evocando il salto tecnologico e la produzione di massa. Quel modello industriale si stava affermando in Occidente tramite l’applicazione di un pacchetto di fattori produttivi composto da sementi di varietà migliorate, fertilizzanti chimici, pesticidi di sintesi e – laddove possibile – acqua irrigua e meccanizzazione sospinte da motori alimentati con fonti fossili. La Rivoluzione Verde ha quindi portato la Rivoluzione Industriale al settore primario e scavato un duplice solco: come apertura di nuovi mercati ai mezzi tecnici usciti dalle fabbriche e dagli impianti petrolchimici e come argine alla Rivoluzione Rossa che, a partire dalla sfida della fame, contendeva al capitalismo le masse e le leadership dei Paesi del Sud del Mondo.

Nel giro di pochi decenni, la traiettoria rumorosa dell’agrochimica industriale in via di universalizzazione si è tradotta in una primavera silenziosa: non solo la progressiva sparizione di biodiversità coltivata e selvatica, inclusi insetti e uccelli il cui sonoro svolazzare è divenuto sempre più sporadico, ma anche l’avvitamento di una spirale fatta di accresciuti e più aggressivi trattamenti pesticidi per fronteggiare resistenze di patogeni, parassiti e flora spontanea. Un graduale fallimento fattuale e concettuale insito nella stessa potenza tecnologica.

Fino a tempi recenti, diciamo il Secondo Dopoguerra, l’agricoltura aveva le sue narrazioni, dovendo promuoversi come sorgente di cibo a fini di legittimazione sociale, ma senza particolari appellativi (e) distintivi: bastava discernere la casta tra servi, contadini e latifondisti. Quella era e quelli erano, agricoltura e agricoltori, investiti del compito primario di sfamare le genti e alimentare i mercati.

È da qui che parte il chiasso scientifico-mediatico odierno sulle traiettorie di sviluppo del sistema agroalimentare; è da qui che emerge l’invocazione universale al cambiamento di un sistema malfunzionante e il conio di nuovi appellativi per le forme di agricoltura; è da qui che si comincia a pattinare sulle definizioni e a ricorrere ad aggettivi persuasivi, malleabili all’occasione. Sostenibile è stato il primo di questi aggettivi.

L’obiettivo di sostenibilità ha cominciato ad abbracciare le intere dinamiche produttive e sociali con maggiore enfasi dal Summit di Rio de Janeiro sullo Sviluppo Sostenibile del 1992. L’agricoltura non poteva sottrarsi alla definizione di percorsi di sostenibilità e in poco tempo tutto il sistema cibo – o quasi – si è lanciato nella corsa per assumerne qualifica e patente, tanto che proprio oggi in Europa si discute di quali possano essere i green claim ammissibili in un’etichettatura degli alimenti che ne rivendichi la compatibilità ambientale.

Nel tempo, l’aggettivo sostenibile è diventato tautologico perché inteso come parte intrinseca di ogni sistema produttivo, una possibilità assunta come must, ma al contempo un must assunto come scontato, quando scontato non è.

Il ‘sostenibile’ che ha caratterizzato il passaggio di secolo è oggi largamente rimpiazzato da ogni declinazione che tiri in ballo il clima. Climate-smart è la dizione internazionalmente più in voga per intendere un sistema agricolo intelligente e duttile rispetto alla crisi climatica, uno smart che in italiano si potrebbe anche tradurre come scaltro. E difatti, di furberia se ne vede parecchia sul tema. Le certificazioni dei crediti carbonici a compensare a prezzi di saldo le emissioni altrui sono un gioco delle (tre) carte e lo stesso dicasi di quelle colture transgeniche che tollerano l’applicazione di un erbicida sistemico, come se il deserto verde di una monocoltura a perdita d’occhio possa essere letta con le sole lenti dello stoccaggio parziale di carbonio. È quest’ultima l’agricoltura che si dice conservativa, quando sarebbe più opportuno dire della conservazione di un modello agroindustriale.

Ma conservazione a volte è addirittura poca cosa: con la guerra in Ucraina si è andati oltre, verso la restaurazione e la controriforma di un percorso che in Europa aveva lanciato il Green Deal e obiettivi di riduzione di pesticidi, fertilizzanti chimici e antibiotici. Insomma, si vuole far convivere Rivoluzione (Verde) e ancien régime.

Tutto – e il suo contrario – ammantato da un’esigenza trasformativa: a parole, lo status quo è inadeguato alle sfide che crisi climatica, della biodiversità, sociale o geopolitiche portano con sé e il sistema agricolo o l’intero sistema agroalimentare vengono lanciati verso una profonda trasformazione. Con diverse ragioni e obiettivi lo rivendicano i movimenti sociali, la FAO, la Banca Mondiale, Coldiretti e Bayer. Ognuno ambisce a trasformare il sistema cibo, raramente se stessi, come tanti Gattopardi.

Trasformazione, poi, si accoppia spesso con transizione, talvolta in via sinergica, altre come superamento dell’una sull’altra, e per entrambi avendo un qualche barlume di idea sul punto di partenza, ma grande confusione su quello di arrivo, sul tempo che richiede, su chi la agisca e su chi la subisca. Ecco, c’è posto per tutti nella grande Arca di Noè del cambiamento agroalimentare, non osando però indicare chi debba restare a mollo e per quali colpe, quel po’ di selettività che aiuterebbe a capire come poter comunque redimere i rei climatici, ambientali e sociali una volta rimessi i debiti. E così, salvando i peccatori, si fatica a capire i peccati.

La trasformazione è quindi invocata sia da genuini trasformatori che da subdoli trasformisti: saperli distinguere ricongiungerebbe i peccatori con i loro peccati, permettendo di capire meglio cosa cambiare, come, da parte di chi e con quali costi, perché anche la retorica win-win-win… ha i suoi limiti e il cambiamento richiede anche un dazio da pagare e qualcuno che lo paghi. Peccato che questo resti spesso inevaso.

Con la guerra in Ucraina si è andati oltre, verso la restaurazione e la controriforma di un percorso che in Europa aveva lanciato il Green Deal e obiettivi di riduzione di pesticidi, fertilizzanti chimici e antibiotici. Insomma, si vuole far convivere Rivoluzione (Verde) e ancien régime.

Come per la trasformazione anche la resilienza è termine che pervade il dibattito sul sistema alimentare: ampiamente evocate quando si esamina l’agricoltura, trasformazione e resilienza hanno versi opposti volendo cambiare tutto oppure ripristinarlo allo stato precedente il cambiamento (subìto). Per la resilienza si è introdotto il concetto di perversione: quanto dobbiamo ambire a ristabilire lo stato ex ante se questo era iniquo e impattante? Lo stesso può dirsi per la trasformazione che può divenire perversa se alimenta rapporti asimmetrici di potere nel sistema produttivo, atteggiamenti estrattivi sulle risorse naturali e fiducia manichea su tecnologie brevettate e privatistiche.

Ne sono esempio recente le tecniche di evoluzione assistita (TEA), eredi dei vecchi OGM e adattazione benevola ed extra-giuridica della più letterale traduzione delle nuove tecniche genomiche o di selezione (new genomic/breeding techniques). Le tecnologie diventano tecniche e la selezione diventa l’accompagnamento dell’evoluzione, un Darwin onnipotente che oltre a ricostruirne le tappe si immagina di tracciare le prossime, presupponendo di guidarla. È la replica del paradosso orwelliano già rappresentato dal termine varietà, ovvero qualcosa che è – normativamente – omogeneo e stabile, ossia copia conforme del suo analogo e del suo progenitore. Similmente, la TEA fissa i caratteri e ne blocca qualsiasi effettiva evoluzione perché farebbe uscire dal campo dell’uso restrittivo di tipo industriale i semi che quelle caratteristiche e non altre devono avere per potersi fregiare dell’esclusiva privatistica. Così come la varietà è tutt’altro che sinonimo di diversità, così l’evoluzione viene assistita a cristallizzarsi.

Le TEA dimostrano anche come l’annidare termini, concetti o nuovi pacchetti tecnologici dentro contorni riconoscibili e rassicuranti li possa far diventare utili vettori di consenso: il biologico è infatti spesso indicato come l’ambito che più si avvarrebbe di tale innovazione, non fosse che di innovazioni già ne esplora e applica di tanti tipi diversi e che i principi e le norme che lo regolano escludano categoricamente il ricorso alla manipolazione genetica. Si assiste così a un ancor più cinico machiavellismo in cui non è più solo il fine che giustifica i mezzi, ma sono i mezzi stessi a legittimare il fine.

È questa una delle testimonianze di come le nuove forme per declinare cibo e agricoltura, e il relativo apparato tecnico-scientifico, si rivelino funzionali al marketing commerciale e politico, traducendosi alfine in un ennesimo paradosso: inserire elementi di distintività per rendere tutto alfine indistinguibile. Si pensi all’alimentare italiano dal forte carattere vessillifero e dall’eccellenza assiomatica. Che siano le denominazioni di origine, l’artigianalità dei processi di trasformazione, il genius loci dei produttori, l’origine nazionale della materia prima o la semplice sede operativa dell’industria alimentare e il suo marchio, il cibo tricolore è per definizione di pregio e, a sua volta, la cucina italiana tutta merita il riconoscimento di patrimonio dell’umanità. Divenendo l’agroalimentare uno degli assi portanti della narrazione patriottica, ambendo addirittura a universalizzarne il valore se dovesse godere del riconoscimento Unesco, la sommatoria delle valenze locali e territoriali diventa un unicum che accompagna l’esaurirsi della pulsione secessionista di pezzi del Paese. La stessa sovranità alimentare, che i movimenti sociali hanno coniato e invocato per ‘leggere’ le specificità agroecologiche, sociopolitiche e culturali, perde il valore di rivendicazione di diritti e di contrasto alla liberalizzazione del commercio internazionale degli alimenti per acquisire quello di promozione del Made in Italy e di nazionalizzazione delle scelte di sicurezza alimentare: ne siano emblema i divieti sulla carne da laboratorio, o sintetica, o artificiale, ossia quella derivante da biodigestori e non da animali allevati in gabbie o sotto il cielo, pur sempre italici almeno alla macellazione.

Che siano le denominazioni di origine, l’artigianalità dei processi di trasformazione, il genius loci dei produttori, l’origine nazionale della materia prima o la semplice sede operativa dell’industria alimentare e il suo marchio, il cibo tricolore è per definizione di pregio e, a sua volta, la cucina italiana tutta merita il riconoscimento di patrimonio dell’umanità.

La sussunzione terminologica non opera dunque solo in campo neutro e sconfina anche laddove questo è stato dissodato con l’ambizione di tornare a coniugare l’intervento umano con il contesto ambientale, dinamica costitutiva dell’attività agricola. Protetto da una norma che ne chiarisce il perimetro, il biologico ne resta indenne, ma si muove in seno a una famiglia di approcci di riequilibrio ambientale ora esposti alla cooptazione.

L’agroecologia è progredita per fare i conti con i vincoli del sistema ecologico e metterne a valore le ricchezze. Pensata come articolazione di saperi e discipline diversi per definire un approccio sistemico alla generazione di cibo è divenuta proposta per un’alternativa del sistema alimentare che desse spazio alla molteplicità di pratiche e ai protagonisti sociali che le sviluppano e rivendicano quale modello produttivo e di organizzazione collettiva. Una volta affermatasi nel dibattito su cibo e agricoltura, l’agroecologia è stata sussunta per farla convivere con gli OGM, con la produzione di biocarburanti o con l’acquacoltura foraggiata da mangimi e antibiotici. Sono divenuti agroecologici gli irroratori di erbicidi disseccanti o McDonalds quando in Francia ha pubblicato la sua charte agroécologique.

E come l’agroecologia, anche l’approccio rigenerativo è oggi conteso da due poli piuttosto lontani per analisi e obiettivi: da una parte chi spinge il biologico a rilanciare la sua sfida adottando approcci tecnici e di mercato coerenti con i suoi valori fondanti, dall’altra l’agroindustria che si rigenera in un comodo cavallo di Troia. Syngenta, guardando al suolo, ha intrapreso iniziative che illustrino la scienza del rigenerativo, mentre Danone e Nestlé programmi volti a rigenerare il lattiero-caseario: tutto si rigenera, in un grande lifting dell’agricoltura.

Sono parole trattate come botulino o cellule staminali che poste nel giusto brodo di coltura possono diventare tessuti on demand con cui rifare il volto a un sistema primario che ha perso lo smalto e che finisce per perdere anche la faccia.

In sintesi, l’agricoltura soddisfa gran parte del bisogno alimentare, rappresentando la giustificazione etica e sociale che scagiona l’intervento antropico sull’ambiente, e tale presunzione di innocenza richiede di tornare a leggerne i fondamentali in un quadro di autentica compatibilità ecologica e di diritti. Attenzione quindi a quel camuffamento che in agricoltura maschera lo sfruttamento delle risorse come delle persone con formule lessicali simili alle formule alchemiche che promettono di trasformare vili metalli in oro. La ricerca di aggettivi passe-partout svuota le parole di senso e con loro il significato più alto dell’attività primaria: agricoltura e alimentazione tornino sostantivi sostanziati.

 

[Luca Colombo è il segretario generale della Firab, Fondazione Italiana per la Ricerca in Agricoltura Biologica e Biodinamica. Autore di diversi libri, come “Diritti al cibo!”, collaboratore del supplemento “Extraterrestre2 del quotidiano Il Manifesto, è un esperto di sicurezza alimentare e colture transgeniche]

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