I Pooooooh!!!
Erano gli anni Novanta quando, nella trasmissione “Avanzi”, condotta da Serena Dandini, compariva il personaggio del signor Antonio, interpretato da Antonello Fassari, un vetero-marxista che si risvegliava all’improvviso da un lunghissimo coma durato venti anni, scoprendo con stupore che il comunismo era finito. Un tema che, sempre fra il serio e il faceto, verrà ripreso, in modo quasi identico, anche qualche anno dopo, in un bel film tedesco dei primi anni duemila, che ebbe un discreto e meritato successo internazionale: “Goodbye Lenin”.
Per alleviare il dolore del signor Antonio, rimasto mentalmente e spiritualmente agli anni Settanta, un uomo che quindi non aveva potuto conoscere il rampantismo, i paninari, il cosiddetto riflusso e nemmeno Mani pulite, in quella vecchia trasmissione di RaiTre la conduttrice cercava affannosamente di elencare le cose che erano rimaste identiche e immutate, nel corso dei venti anni da lui non vissuti, finendo per non trovare di meglio che dirgli: “Ci sono ancora i Pooh!”, sperando così di alleviare il suo spaesamento e la sua disperazione.
“I Poooooooh!” rispondeva, con un lungo grido, il signor Antonio, stupito e in parte deluso.
“I Poooooooh!” divenne, in questo modo, un tormentone di grande successo. In quella lunga esclamazione, che, dal signor Antonio della tv passò ad essere ripetuta da tutti gli italiani, c’era sì lo scoramento per un’Italia che rimaneva identica a se stessa, senza la capacità di un reale e profondo rinnovamento. Ma c’era anche la rassicurazione per un Paese che, quantomeno nella cultura pop, manteneva intatta nei decenni una sua tradizione, una sua coerenza, dei suoi punti di riferimento.
I Pooh divennero, da quel momento in poi, il simbolo di un’Italia d’acciaio e immortale, che poteva orgogliosamente rivaleggiare anche con la perfida Albione della longeva Elisabetta II e di quegli higlander dei Rolling Stones.
La morte del romano Stefano D’Orazio, ha spazzato via questa certezza. Proprio come accaduto con Gigi Proietti, scomparso appena poche ore prima di lui – finendo così, di fatto, per oscurare in parte la dipartita del batterista dello storico gruppo che aveva formato con Roby Facchinetti, Dodi Battaglia e Red Canzian – con lui non muore soltanto un personaggio pubblico, ma un simbolo d’immortalità.
Se, infatti, con Proietti ci aveva abbandonato anche il suo invincibile “cavaliere nero”, quell’eroe immaginario e imbattibile di un famoso sketch, con D’Orazio a morire sono “I Poooooooh!” quelli con tante “o” e il punto esclamativo alla fine, quelli raccontati dal signor Antonio di Antonello Fassari, quelli che da cinquant’anni ci accompagnano con le loro note, spesso derisi da buona parte dell’intellighenzia, ma che riuscivano a rassicurarci sempre nei nostri momenti di sconforto.
Proprio come Proietti, anche D’Orazio era un uomo famoso, di successo, romanissimo e popolare. Però era il rappresentante di una romanità diversa, non ostentata, ma non per questo meno autentica.
Era uno di quei romani che non hanno bisogno di ripetere “daje”, “ao”, “annamo”, “dimo”, “famo”, per testimoniare il proprio spirito capitolino. Uno di quelli che dimostrano l’universalità dello spirito della nostra città, il suo essere captale d’Italia prima ancora che “strapaese”, un luogo in cui ogni connazionale può identificarsi, mescolarsi e sentirsi di casa, come, infatti, avviene da secoli.
Cavaliere del lavoro, ambasciatore dell’Unicef, pochi sanno che, agli albori della sua carriera, D’Orazio ha collaborato anche con Carmelo Bene, realizzando la colonna sonora di un suo spettacolo “off”. Una curiosità, che un po’ spiazza chi pensa ai Pooh solo come a un sinonimo di musica “nazional popolare”. Di D’Orazio ho anche un piccolo, forse banale, ricordo personale, di quando, io bambino e lui musicista già famoso e affermato, veniva tranquillo e senza troppe arie a trovare i propri parenti, miei vicini di ombrellone allo stabilimento Marechiaro di Ostia; non certo un posto da vip, come sa bene chi conosce il litorale romano. Forse vuol dire poco, forse anche questo, a suo modo, è un simbolo.
Quel che è certo, è che le esequie di Stefano d’Orazio, nonostante la location sia quella stessa chiesa degli Artisti di piazza del Popolo, ancora una volta “blindata” a causa delle regole anti Covid, in cui è avvenuto l’estremo saluto a Gigi Proietti, non hanno potuto contare sullo stesso ritorno mediatico, né su nessuna diretta tv. Ciò non toglie che la sua morte, esattamente come quella di Proietti, va a intaccare un altro pezzo di “eternità” della nostra “città eterna”. Nessuno, d’ora in poi, potrà più dirci, per consolarci, che ci sono pur sempre “I Poooooooh!”, tutti immortali e identici a loro stessi, proprio come tanti anni fa.
Quei “Poooooooh!” con tante “o” finiscono con lui. E senza quei “Poooooooh!” siamo tutti un po’ più indifesi, proprio come quegli “Uomini soli”, alla disperata ricerca del conforto di un qualche Dio delle città e dell’immensità, con cui trent’anni prima “I Poooooooh!”, quelli con tante “o” ma anche quelli che di “o” ne avevano solo due, raggiungevano l’apice della loro carriera, vincendo Sanremo.