La Roma dei vivi

Il docu-romanzo di Nicola Lagioia “La città dei vivi”, è uscito ormai da tre mesi, e con l’incredibile numero di citazioni e recensioni che ha avuto, parlarne oggi sembra un po’ come proiettare un film in un cinema di quelli che una volta si chiamavano “seconda visione”.  La ragione per cui lo facciamo è che il libro, basato sull’omicidio di Luca Varani nel 2016, parla moltissimo di Roma.
Questa però non è una recensione, ma piuttosto un excursus geografico ragionato a partire dal libro, un catalogo di luoghi e descrizioni, per così dire.

 “La città dei vivi”, dicevamo, parla della Capitale: di com’era nel 2016, forse l’anno del suo massimo degrado in tempi recenti (ma a Roma, una volta convinti di aver toccato il fondo, si può essere costretti a cominciare a scavare), degli anni a seguire, ma anche della Città Eterna in senso lato.
Una città in cui è eterna apparentemente anche la decadenza, anche se Lagioia non usa mai questo termine e parla di “tracollo”, anzi di tracolli, di fasi da cui però la città si riprende.
Dal punto di vista geografico, invece, Roma è un’area urbanizzata – talvolta, o anche spesso, malamente – senza limiti precisi. Quello che gli urbanisti chiamano sprawl, un disordine urbanistico creato dalla crescita accelerata. Quella che ha contraddistinto Roma in seguito alla presa di Porta Pia e soprattutto dopo la Seconda Guerra Mondiale.

 

Il Colosseo conquistato dai topi

La narrazione qui inizia però dal Colosseo, cioè l’emblema di Roma, e dall’emergenza-topi che si verificò nel marzo di cinque anni fa. “Negli ultimi tempi i roditori uscivano continuamente dalle fogne… Attraversavano le strade incuranti del traffico. Entravano nei negozi di souvenir e spaventavano i turisti. I giornali ricordarono che a Roma i topi erano più di sei milioni. Anche a New York e a Londra i roditori non mancavano, solo che a Roma erano diventati i re della città”.

Ma i topi si moltiplicano, seguiti dai gabbiani perché c’è l’emergenza-rifiuti: “A Roma la gestione dei rifiuti stava vivendo una situazione tragica”. E nei cassonetti della spazzatura ora pescano anche “ragazzi bianchi, ben vestiti”.
È un crescendo da film catastrofico. Ci sono le strade che si aprono o sprofondano, i batteri che infettano i bimbi in ospedale.Le violenze contro gli autisti dei bus, e poi i bus che bruciano.

Poco dopo, Roma diventa la città della pioggia:

E se non c’è la pioggia, d’estate arriva il caldo che ristagna “famelico” o che è “atroce”: “I portieri trascorrevano le ore a guardare fuori per strada. Le braccia nude delle ragazze. I vecchi che avanzavano lenti tra le buche”.

“Nei weekend la gente fuggiva verso il mare, ma chi poteva mollava il lavoro già nel mezzo della settimana. Uffici deserti. Cieli azzurri. Telefoni che squillavano a vuoto. Era uno dei piaceri più intensi per gli abitanti della città: ritrovarsi con i piedi nel Tirreno a discutere di cose futili, come se, dalla riva dei più, si potesse già guardare con superiorità ai tristi affanni dei vivi”.

È un clima di “eterna smobilitazione”, che ogni anno si ripete, mentre il caldo aumenta. E col caldo primaverile (ma già asfissiante) del 2016 arriva l’elezione di Virginia Raggi, prima donna sindaco ma “che sembrò perfino più impotente dei suoi predecessori”.

In questo quadro di decadenza, a Roma “ognuno fa come cazzo gli pare”:

La narrazione si muove tra i quartieri. Abbiamo detto Colosseo, poi Collatino, dove abita sia Manuel Foffo che la sua famiglia, e dove avviene l’omicidio: una specie di gigantesco alveare fatto di condomìni, con “vialoni alberati dove uomini solitari portano a spasso i cani circondati dal silenzio”.
C’è la stazione Tiburtina, quando Luca Varani compare la prima volta, nel libro, su un treno della linea metropolitana. E per arrivarci, “il treno viaggiava intanto verso Primavalle, attraversava pratoni, borgate, palazzi malandati, campi pieni di ferraglie e cessi rotti”.

Poi c’è Piazza Bologna, dove vive la famiglia di Marco Prato. “Intorno all’edificio postale, un imponente edificio razionalista costruito sotto il fascismo, si è sviluppata nel tempo un’area destinata al ceto medio-alto”. C’è piazza Ungheria, i Parioli, dove abita il facoltoso amico-vittima di Prato.

Ma ci sono anche “luoghi che sono puro sogno”, in città: Testa di Lepre. Grottarossa. La Storta (dove vive la famiglia di Luca Varani). “Molti romani sanno che esistono ma non ci sono mai stati, li affascinano i nomi, ma non saprebbero collocarli su una cartina muta”. 

Perché “la verità è che Roma non ha confini certi. Superato il Vaticano si viaggia sull’Aurelia. Dopo qualche minuto la luce si fa chiara, le abitazioni si diradano, la vegetazione prende il sopravvento sull’opera dell’uomo. Superato il raccordo ci sono volpi, upupe, cinghiali (che però si trovano anche dentro il GRA, ndr). In molti, a questo punto, credono che Roma sia finita”.

La fidanzata di Luca, Marta Gaia, abita invece a Casalotti, “in una strada di palazzi bassi e di magnolie”. Mentre a Cornelia Luca va a “scroccare du’ spicci” e a Battistini c’è la sua comitiva. E a Valle Aurelia c’è la carozzeria dove lavora.

 

La Roma dei turisti

C’è la Roma dei turisti, taglieggiati, truffati e ingannati dai romani, ma che si rifanno con il panorama del Gianicolo, il Mosé di Michelangelo a San Pietro in Vincoli, Santa Prassede, Monti. Trastevere bella, coi mosaici di Santa Maria, ma assediata dalle auto. “Enorme garage del ceto medio d’Italia. Ciò che accade quando i monumenti di una città durano troppo a lungo”.

E c’è Regina Coeli, il carcere, e il Tevere, che sembra quello di “Lo chiamavano Jeeg Robot”: “la struttura è incastonata in una delle parti più belle della città. Poco distante c’è il Gianicolo con le sue vedute. Sul lato orientale scorre il Tevere. È quello il punto magico in cui, a fior d’acqua, un battito di ciglia catturerebbe la Sinagoga, le ariose campate di Ponte Garibaldi, il campanile di San Bartolomeo. Tutto ciò che di magnifico si può chiedere alle forme è a portata di sguardo. Ma sotto la pellicola verdastra il vero fiume è cieco e freddo e popolato nel fondo limaccioso da creature senza volto”. 

Un fiume popolato di misteri e di carcasse del bike sharing:

 

Perché “portare quelle biciclette a Roma significava avere l’arroganza di guarire un moribondo a colpi d’aspirina, era un’offesa, un’umiliazione, e peggio ancora era pretendere di agganciare alle ultime novità tecnologiche una città che il concetto di progresso se l’era scrollato via di dosso e galleggiava nella stasi, nel vuoto cronologico, simile alla polvere sulle piramidi dopo la fine della civiltà egizia, con la paradossale differenza che Roma, invece, continuava a scoppiare di vita”.

C’è una città di tassisti pazzi: “Ogni tassista a Roma era pazzo in modo unico”, come quello che tira le monetine contro “i veicoli che occupavano abusivamente la corsia riservata”.

 

Esquilino Hard

C’è l’Esquilino, e prima di tutto il comando dei carabinieri che svolgono le indagini. Poco lontano da Colle Oppio, dove c’è l’OS Club, dove Marco Prato e i suoi soci organizzano feste. Ma tornando all’Esquilino – coi “negozi dei cinesi”, con i “kebabbari rivoltanti” di via Manin – è intorno a piazza Vittorio, lato stazione, che il turista olandese senza nome, pedofilo, che è l’altro protagonista di secondo piano del libro che incontra ragazzini stranieri che paga per il sesso.
Lì Roma diventa “la capitale dei vizi. Il più bel cesto per queste mele marce”.

Foto di Cristian Bortes diffusa su Flickr.com con licenza creative commons

E poi c’è la Gay Street di San Giovanni (via di San Giovanni in Laterano: che in realtà è quartiere Celio). I negozi di abbigliamento dalle parti di Cola di Rienzo. La zona di Santa Croce in Gerusalemme, dove “le pizzerie degli egiziani stavano chiudendo, così i negozi dei bengalesi con la merce stipata ovunque”, la “zona morta” tra via Micca e via Balilla.
C’è Villa Borghese con qualche “statua decollata” e la vegetazione fitta, e la Galleria Borghese con le sue opere importanti; ma anche con i “prostituti di vent’anni, rapidi come guerrieri, (che) si accostavano alle auto dei clienti. E Piazza dei Cinquecento, anche quella piazza di marchettari.
C’è il Verano, coi cipressi che si intravedono dai tavolini di un bar dove bere superalcolici di notte.

E ci sono le pizzerie al taglio, caratteristica di Roma e di nessun altro posto al mondo: “A Roma, quando hai fame e sei per strada, c’è almeno un posto che prima o poi, immancabilmente comparirà alla vista….”.

C’è Ponte Milvio, dove “la luce cadeva sui campi da tennis e sulle belle case colorate”, dove “gli uccelli volavano da una parte all’altra del fiume”.
C’è Ostiense, “dove il Tevere si inoltra nel buio fitto di sterpi ed alberi con lo scheletro del Gazometro alle spalle”.
C’è Piazzale Clodio e, visto solo da lontano, l’osservatorio astronomico di Monte Mario, c’è il lungotevere trafficato e c’è il Museo delle Anime del Purgatorio, nella Chiesa del sacro Cuore del Suffragio, un posto dove si conservano documenti e testimonianze che proverebbero l’esistenza del Purgatorio, appunto.
E c’è il Parlamento, o meglio il Senato, “il palazzo dove la democrazia viene salvata e minacciata a giorni alterni”. C’è il Quirinale, o meglio un vicino giardino.
E poi c’è la città dei morti veri, Prima Porta, come noi romani chiamiamo il cimitero Flaminio, il più grande cimitero d’Italia.

Foto di Robert Cortes diffusa su Flickr.com

Fuga da Roma

E c’è poi il momento, in quel 2016 (ma Remo Remotti lo aveva detto diversi anni prima), in cui Lagioia, che è pugliese, vuole scappare da Roma. Un pensiero improvviso, il suo, che lo coglie mentre cammina per Torpignattara:

“Roma era morta e risorta tante volte, e io non ero così arrogante da credere che l’attuale tracollo fosse quello definitivo”, ammette l’autore. Che però lo stesso vuole fuggire perché non sa quando la città si riprenderà, magari in anni o decenni o secoli: “La città di sotto si stava mangiando quella di sopra, i morti divoravano i vivi, l’informe guadagnava terreno”.

Nicola Lagioia finisce per trasferirsi insieme alla moglie a Torino (“Ci strappammo via da Roma con la cupa soddisfazione di chi si libera da un vizio”), solo per provare subito nostalgia di Roma, e a un certo punto per convincersi che deve tornare.
“A mancarmi così tanto era la sensazione di assoluta libertà che a Roma era sinonimo di sfascio, anarchia e trascuratezza, e a mancarmi era la certezza, in alcuni momenti vertiginosa, di poter vivere come semplici espressioni umane, alla condizione brada, sciolti dal laccio di uno Stato e perfino dal vincolo di una comunità che voglia dirsi un popolo”.
Non solo, perché Roma è anche “scorte di sana normalità, tonnellate di banale tristezza contro l’orrore”. Che forse è la condizione che abbiamo appreso vivendo nella città del Papato, trovando nell’ultraterreno una chiave di resistenza all’Assoluto.

C’è anche chi, tra i conoscenti di Lagioia, un altro scrittore o forse lui stesso, immagina per un momento una Roma senza persone, dove sarebbero le fontane, i porticati, i giardini, le basiliche, le statue al centro delle piazze, ma anche i lampioni, gli ospedali, i tralicci, le “radioline lasciate sui balconi” a dialogare tra loro. “Sai che palle”, commenta una. “Ma che cazzo stai a di’”, aggiunge un altro.

[La foto del titolo è di José Ramirez ed è diffusa su Flickr.com con licenza creative commons]

 

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