Gl’InfArtisti – cod. 0.0.1

Capitolo primo(?)

Potrei iniziare dicendoti che questa è una storia falsa. Ma che la storia falsa è ispirata da una storia vera. E che la storia vera non è molto ispirata. Potrei iniziare dicendoti così, se non lo avessero già detto in un film. Quasi uguale uguale. Che è anche un gran bel film, dove tutti sono cattivi. Soprattutto i buoni. Lì si odiano davvero. E muoiono quasi tutti. Per questo, allora, inizio proprio così.

La storia vera inizia a Roma Settanta. Anzi lì ci finisce. Roma Settanta è un quartiere che sta a Roma sud. Molto sud. Anni Settanta era pure la sua macchina finita in panne. Dice “che c’entra?” C’entra. È un segno. E lui a spingere per finire una consegna. È che prima lui faceva il musicista jazz. Come Paolo Conte, lui. Quello che le donne odiavano il jazz, non si capisce il motivo. Perché anche questa crisi è molto jazz: cacofonica, improvvisata, ma, soprattutto, non si capisce il motivo. Il motivo vero, dico. Perché questa è la storia vera. Perché un musicista jazz non ce la fa mica a fare le consegne. Non tutte. Non tutti i giorni. Né a spingere la macchina. Un infarto, dicono. E daje coi giornali a fare i coccodrilli.

Io invece sto a Roma nord. Molto nord. Tanto nord che dopo un po’ ti accorgi che non è più Roma. Anzi no, non te ne accorgi mica. Pare proprio Roma. Però non lo è più. E arrivi a Passo Corese che è un attimo. Se prendi l’autostrada è un euro e cinquanta. No, io le consegne non le faccio. Preparo i pacchi per chi le deve fare. Magari ho preparato pure quello del jazzista il giorno che è morto. Vallo a sapere. Anzi la notte. Perché io i pacchi li preparo di notte. Tutte le notti.

Siamo in mille lì. O forse tremila. Dicono pure cinquemila. Cambia poco. Comunque siamo tanti. Comunque lì il posto è grande. C’è pure una ballerina. Si chiama Sara. Lavorava a Mediaset. C’aveva una scuola di danza. Sta adesso a fare i pacchi e va che è una scheggia. Sarà l’allenamento. Sarà che vuole restare lì a lavorare: “Cazzo, mi sono resa conto di che lavoro precario è il nostro. No, non dico qui, dico alla scuola di ballo, dico in tivù, dico il mondo dello spettacolo dove lavoravamo noi, no?”. Che poi qui c’ha un contratto di tre mesi. Come me. Ma è già meno precario di prima.

C’è pure Antonio che insegnava teatro a Palermo. “Dalla Sicilia ci sei venuto?”, gli chiedo perplesso. “Al sud quest’azienda non ha sedi. La sede più vicina è questa!”, risponde secco e non ha voglia di proseguire il discorso. Roberta invece è di una simpatia contagiosa. Di quelle donne così brutte che finisci per vederle bellissime. Lavorava in un cinema. È magra magra. Ma magra magra magra. Di un magro malato, quel magro che suggerisce un problema nascosto. Però lei è simpatica e non dice niente. Le offro un biscotto, mi risponde che sta a dieta. Domani le scade il contratto e non sa ancora se glielo rinnoveranno. E ride, perché è simpatica e preoccupatissima.

Intanto che accade nel mondo? Ieri su Raiqualcosa avevo sentito Elio. Sì proprio Elio di Elio e le storie tese. Quell’Elio lì. Perché ieri era domenica e me ne stavo a casa. È che non lo so, non l’ho sentito dall’inizio, non l’ho capita tutta tutta, ma pare faccia un concerto on line. O una raccolta fondi. Boh. Comunque una roba di quelle da anime belle. Di quelle per i poveri artisti rimasti senza lavoro. Di quelle che strappano la lacrimuccia. Di quelle che ti puliscono la coscienza e ti riempiono di foto sui giornali. Di quelle che poi non ce lo facevo Elio così retorico. Roba che nemmeno l’elemosiniere del Papa. La crisi ha peggiorato tutti. Elio non fa eccezione.

Vruuuuuuuuuuu… lì la notte è tutto un vruuuuuuuuuuu… interminabile. Che tanto poi non ci fai più caso. Una canzone mononota, giusto a proposito di Elio. I nastri trasportatori, i macchinari, i transpallet. E i conveyor. Che poi i conveyor sono sempre i nastri trasportatori, ma in inglese fa più fico. Insomma un gran casino. Se parli non si sente. Con le mascherine poi. Che ogni tanto ci provano a coprirlo quel vruuuuuuuuuuu… Ci provano con la musica in filodiffusione. Ma poi rinunciano, perché con la musica è pure peggio. E allora stai lì a fare il pesce nell’acquario, senza parlare che tanto è inutile. Al ritmo di quel vruuuuuuuuuuu… Quello che scandisce il tempo sempre uguale, senza inizio e senza fine. Con uomini e donne sempre uguali, che variano di tre mesi in tre mesi. Ciascuno col suo codice, con cui ti riconoscono.

Ieri però una tipa mi ha chiamato per nome. “Ma che ce sta a provà?” mi è venuto da chiedermi. Così, d’istinto. È che ti abitui a tal punto ad essere un codice, che il tuo nome vero alla fine ti fa strano. Perché lì non sei proprio tu, sei un po’ quel codice. E sei il tuo numero di pacchi completati in un’ora. E il tuo numero di oggetti messi sul rullo, nei contenitori, negli scaffali. O forse no. Che in fondo non si sa. Nessuno lo sa bene cosa sia giusto fare lì. Tranne i codici segreti dei computer. Perché nessuno capisce davvero come funzioni. Meno che mai i capi. Che non sanno nemmeno perché sono diventati capi. Però lì vige una perfetta eguaglianza: non conta un cazzo nessuno. Niente discriminazioni. Si rispetta pure gentaglia come negri, ebrei, italiani o messicani, avrebbe aggiunto Stanley Kubrick, per bocca del Sergente Hartmann.

Che poi lì non conta nemmeno essere sergente. Decide tutto l’algoritmo: chi entra, chi esce, chi si riposa, chi lavora sodo. E allora ti aspetti che un soldato Palla di Lardo, prima o poi, finisca per andare fuori di testa, imbracci un fucile e cominci a spaccare tutto. Proprio come in “Full Metal Jacket”. Per questo, per prevenire, mi verrebbe da fare invece come fece Titta, cioè il Dottor Di Girolamo, cioè quello de “Le conseguenze dell’amore”, quello che chiedeva di fare tutto a mano. Anche le cose che si farebbero prima e meglio a macchina. “Non bisogna mai smettere di avere fiducia negli uomini, il giorno che accadrà sarà un giorno sbagliato” diceva Titta. Poi però mi ricordo che Titta faceva una brutta fine in quel film. Anzi bruttissima. E lascio stare.

Sono questi pensieri, queste citazioni di film – roba fica, roba colta, mica cazzi – che mi fanno ricordare di essere stato un artista. O che ci avevo provato. E mi fanno ricordare di quel mondo senza mascherine, in cui si millantavano tante opportunità. E mi fa ricordare che so usare appropriatamente anche termini come millantavano. E allora mi viene da ridere quando, alle cinque del mattino, mi fermo all’Autogrill tornando verso casa. Ripenso a una canzone di Giorgio Gaber: “Da solo, lungo l’Autostrada, alle prime luci del mattino, a volte spengo anche la radio… Lo so del mondo e anche del resto, lo so che tutto va in rovina, ma di mattina, quando la gente dorme col suo normale malumore, mi può bastare un niente, forse un piccolo bagliore… E sto bene!”

Ci stanno Roberta e Antonio e pure Mary, all’Autogrill, che forse un giorno vi parlerò pure di lei, di Mary dico. Si sono fermati anche loro a prendere un caffè, giusto per sentirsi normali, in un vecchio mondo, quello senza mascherine e con tante millantate opportunità. E ci salutiamo e ridiamo insieme e scherziamo su cose di lavoro e anche no. Senza pensare che pure l’Autogrill non è più un Autogrill. Adesso sta in un container. Perché all’Autogrill, quello vero, ci dovevano partire i lavori. Però è arrivata la crisi e hanno stoppato tutto. Intanto è passato un altro giorno. E non ho ancora avuto un infarto come il jazzista. E saluto tutti quando esco. Poi domani si vedrà. Perché, ne sono certo, alla fine, andrà tutto bene…

 

Continua…

 

[Le foto sono state diffuse con licenza creative commons su Flickr.com]

 

 

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