Il delitto Prefetto

Poteva sembrare strano che la vittoria della nazionale italiana di calcio ad Euro 2020 fosse riuscita a mettere d’accordo tutta la penisola. Eppure, per un paio di giorni, pareva fosse davvero accaduto questo. Tutti contenti, tifosi e non, con i calciatori azzurri che non lasciavano praticamente appigli ai detrattori e ai polemisti di professione. Sul piano sportivo la squadra aveva infatti sciorinato un bel gioco. In un mese di partite, non si era inoltre mai vista l’ombra di una mezza polemica da spogliatoio, di quelle che mandano in brodo di giuggiole i quotidiani sportivi. Persino la fortuna – quella che, di solito, aiuta gli audaci – era venuta in soccorso, sbrogliando sempre a favore dei ragazzi di Mancini le situazioni più delicate, sul campo e fuori.

Qualcuno ci aveva provato a rompere il giocattolo, soffiando fortemente sul fuoco di una polemica un po’ stucchevole e pretestuosa, pro e contro gli inginocchiamenti pre partita. Ma anche lì – dimostrando un’abilità cerchiobottista degna della DC dei tempi d’oro – la nazionale italiana era riuscita a cavarsela egregiamente, alternando, di volta in volta, inginocchiamenti parziali, inginocchiamenti totali, inginocchiamenti negati, senza accontentare del tutto, né scontentare del tutto, praticamente nessuno, in modo che ciascuno potesse, a suo modo, cantare vittoria.

Fallita la missione d’impallinare la squadra, con tutto ciò di cui essa è simbolo, attraverso polemiche giornalistiche importate d’oltreoceano e dai fini apparentemente antirazzisti, mentre l’Italia provava a riassaporare un po’ di sana e banale gioia comunitaria – effimera e al tempo stesso necessaria, come tutte le manifestazioni di gioia – proprio quando la popolazione era scesa in strada festante a salutare i vincitori, ecco apparire, come nei migliori war games, l’irriducibile, il cecchino invisibile e micidiale, quello che spara sulla folla indifesa e fa capire che la guerra non è ancora finita.

Il cecchino, stavolta, è piazzato in un palazzo del centro della Capitale, quello della Prefettura, in via Quattro Novembre. Ha le sembianze di Matteo Piantedosi, il prefetto di Roma. Dalle finestre del suo ufficio vede passare un autobus scoperto, coi giocatori della nazionale, circondati da un’ampia folla plaudente, stretta in un grande abbraccio comune. Proprio quell’enorme abbraccio di folla che è stato negato, per quasi due anni, dai consigli e dalle imposizioni sul distanziamento sociale anti pandemia.

Piantedosi sa che il virus è ancora in agguato fra le strade della città, che quella folla potrebbe favorirne la diffusione. E allora, dopo qualche ora di esitazione, decide di sparare alzo zero contro quell’assembramento. I suoi colpi sono affidati alle agenzie di stampa, alle quali dichiara che quel pullman scoperto, quello mandato in giro nel centro di Roma coi giocatori e la coppa, non era autorizzato. La FIGC risponde subito al fuoco, affermando che invece c’erano tutte le autorizzazioni necessarie.

Alla Federazione Italiana Giuoco Calcio, dà man forte il campione della nazionale Leonardo Bonucci, il quale, stizzito per il rimpallo di responsabilità, dichiara di avere ricevuto l’autorizzazione alla sfilata dalle massime autorità dello Stato, con cui era stato a colloquio pochi minuti prima. E così, mentre la polemica esplode sui media, Presidenza del Consiglio e della Repubblica – quelle massime autorità dello Stato implicitamente chiamate in causa da Bonucci – per il momento, tacciono.

Non essendo stati presenti ai fatti, è difficile per noi, se non impossibile, stabilire chi, in questa polemica, abbia torto e chi ragione. Meglio dunque chiederci se questa polemica abbia davvero un senso e se, soprattutto, abbia un senso ai fini concreti del contenimento alla diffusione del Covid. C’è davvero il rischio che a Roma, fra qualche giorno, scoppi un nuovo focolaio?

Forse è più utile chiedersi questo, piuttosto che decidere chi sia il buono e chi il cattivo di questa storia, chi il colpevole da condannare e chi l’innocente da assolvere. Una storia, tra l’altro, che pare si stia indirizzando, sui media e sui social, più verso un’isterica ricerca di un qualunque capro espiatorio, anziché verso un’analisi obiettiva dei rischi concreti corsi dalla popolazione e delle eventuali contromisure da prendere.

È innegabile che ogni assembramento comporti un grandissimo pericolo e sia capace di alimentare la diffusione del virus. Di un qualsiasi virus. Ed è innegabile che maggiore è l’assembramento – e per un tempo più prolungato – maggiore è il rischio, con un aumento delle probabilità di diffusione che segue un andamento esponenziale. Premesso ciò, qualcuno ha però ricordato che assembramenti analoghi a quelli per la vittoria della nazionale, si erano già verificati a maggio, a Milano, in occasione dello scudetto dell’Inter. E poi ancora ad Empoli, a Perugia, a Salerno e in molte altre città, per le promozioni delle compagini calcistiche locali.
In nessuna di quelle località si è verificato alcun aumento significativo delle positività, nelle settimane successive.

Perché, dunque, Roma dovrebbe ora fare eccezione? Ci sono forse dei dati e degli elementi – magari non ancora resi pubblici – difformi rispetto a quelli milanesi di due mesi fa, che non permetterebbero di assimilare la situazione capitolina al precedente meneghino e nemmeno a quello perugino o salernitano? Se così fosse, sarebbe utile conoscere quei dati e quegli elementi, in modo da avere informazioni indispensabili per generare un comportamento responsabile nella popolazione, che eviterebbe di creare delle sensazioni di panico o, all’opposto, delle sensazioni di “cessato allarme”, tanto indifferenziate quanto fuorvianti e pericolose.

Ovviamente c’è anche un altro aspetto della questione. Se le manifestazioni dei tifosi dell’Inter, della Salernitana, dell’Empoli, del Perugia, erano state manifestazioni spontanee, ben altra cosa è una manifestazione autorizzata dalle autorità, come nel caso di quella romana per la nazionale di calcio. È forse per questo, soprattutto, che si è scatenata l’ira del prefetto Piantedosi. Non si può esortare per mesi, per anni, la popolazione a restare in casa, a usare le mascherine, a tenere le distanze, chiudendo d’imperio interi settori produttivi e poi, improvvisamente, autorizzare un enorme assembramento solo per una vittoria sportiva. Il messaggio che si trasmette diventa schizofrenico e incoerente e l’autorevolezza dello Stato viene meno.

Giusto. Giustissimo. Però, anche qui, qualcuno ha ricordato che alcune settimane fa – per l’esattezza sabato 26 giugno – proprio in quel centro di Roma che è stato protagonista della sfilata del pullman azzurro, qualcuno ha autorizzato lo svolgimento del grande Gay Pride di Roma 2021. Anche in quel caso le immagini, i video, i testimoni, hanno evidenziato uno scarso o inesistente distanziamento, hanno mostrato molti partecipanti senza mascherine, hanno parlato di un uguale entusiasmo, di un’uguale partecipazione di massa e di un uguale abbraccio di folla, rispetto a quello avvenuto, giorni dopo, per la vittoria calcistica italiana.

Come mai a quella manifestazione di fine giugno, non risultano succedute polemiche, scaturite da eventuali dichiarazioni del prefetto di Roma, tese a prenderne le distanze? Forse quella manifestazione dava maggiori garanzie di sicurezza? Se sì, in quale senso? In cosa quell’iniziativa era più sicura, su un piano virologico, rispetto a quella organizzata per i tifosi della nazionale? Domande che finora paiono prive di risposta, fornendo, in tal modo, ampio foraggio per mille dubbi e perplessità e alimentando, anche se in modo involontario, le tesi complottiste dei più inverecondi no vax.

La buona notizia, comunque, dopo che dalla data di quell’evento sono trascorsi venti giorni – cioè molti più di quelli in cui il virus resta in incubazione – è che, anche in quel caso, non si sono manifestati aumenti significativi delle positività nella Capitale. Roma, per ora, è salva. Il che lascerebbe ben sperare anche per i postumi da giro in pullman della nazionale.

È però evidente che quella che non pare del tutto salva è l’autorevolezza dello Stato, tra rimpalli di responsabilità fra istituzioni e allarmi a senso alternato; fra “aperturismi” smodati e “chiusismi” altrettanto smodati, senza soluzione di continuità, che appaiono sempre più spesso privi di una logica rigorosa, di una coerenza evidente, dettati, almeno in apparenza, più dalle contingenze del momento, dai motivi di opportunità di parte, dalle cautele personali, che da oggettive esigenze di utilità pubblica e di tutela sanitaria. E con scelte molto raramente accompagnate da dati scientifici che ne evidenzino e ne garantiscano, oltre ogni ragionevole dubbio, l’interesse collettivo.

In un paese che ha dato i natali tanto al genio di Leonardo, quanto al personaggio di Tafazzi, di tutto questo, però, si parla poco. Perciò, il giro in pullman della nazionale, anziché fornire lo spunto per una seria riflessione su come efficacemente contrastare la pandemia, senza per questo mortificare la gioia di vivere e l’economia, diventa solo la scusa per spegnere un raro e prezioso momento di serenità e unità nazionale, dentro al brusio ciarliero dell’ennesima polemicuccia divisiva, alimentata dai nipotini stanchi degli antichi guelfi e ghibellini. Persone sempre alla caccia di colpevoli di facciata cui attribuire il “delitto” del momento e di facili capri espiatori cui addossare tutte le colpe.

Intanto, il nemico comune e invisibile, si disinteressa di tutto ciò e, semplicemente, agisce.

 

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