Il Giubileo senza Papa

Dalle stelle alle stalle. Si potrebbe cominciare a raccontare così questa storia, perché quello che si sarebbe rapidamente trasformato in uno dei secoli più drammatici della storia di Roma, era cominciato in pompa magna e sotto i migliori auspici, col grande Giubileo del 1300, organizzato dal papa Bonifacio VIII. Era il primo Giubileo della storia e portò in città un’enorme ricchezza e frotte di pellegrini e turisti, anche danarosi, fra i quali un certo Dante Alighieri da Firenze.

Pareva l’inizio di una ritrovata epoca di splendore e di agiatezza per la città, capace di ritornare agli antichi fasti dell’Impero e forse sarebbe stato davvero così, se il papa Bonifacio non fosse entrato in conflitto col più potente re dell’epoca: il re di Francia, Filippo il Bello. Dopo lotte feroci e un oltraggioso schiaffo subito – il famoso “schiaffo di Anagni” – Bonifacio muore nel 1303. Otto mesi dopo, muore anche il suo successione Benedetto XI.

Roma, senza un papa forte a fare da guida, comincia perciò ad essere dilaniata da guerre intestine fra famiglie rivali. È per questo che il nuovo pontefice Clemente V, eletto dopo oltre un anno di conclave, francese di nascita, decide che, data la situazione romana, “provvisoriamente” è meglio per lui restare un po’ lontano dall’Italia e sceglie di stabilire una sede papale temporanea in Francia, giusto il tempo che si calmino le acque. Una sede così tanto “temporanea”, da rimanere fissa ad Avignone per quasi un secolo, fino al 1377.

Per Roma è un vero shock, ben descritto dallo storico Alessandro Barbero: “Pensate cosa accadrebbe anche oggi, se il Papa se ne andasse per un po’ via da Roma, che so, tipo a Philadelphia e poi non tornasse più per cent’anni”. La città che aveva conosciuto i fasti del Giubileo sprofonda in una crisi inarrestabile, in una interminabile lotta fratricida fra clan e in uno spopolamento inarrestabile e progressivo. Alla fine di questo periodo, nella città che aveva toccato punte di un milione di abitanti, resteranno a vivere solo in poche migliaia.

Sono gli anni in cui un certo Cola di Rienzo, all’epoca notaio della camera Apostolica, fa dipingere sul Campidoglio, un grande affresco dove si vede un mare tempestoso: in mezzo c’è Roma, dolente e vestita a lutto, circondata da altre donne già morte, che rappresentano le antiche città potenti e cadute: Babilonia, Cartagine, Troia, Gerusalemme. A destra, su un’isoletta, la fede cristiana prega disperata: “O summo patre, duca e signor mio, se Roma père dove starraio io?”, dice il cartiglio lì dipinto.

La lotta per il potere di Roma, in una città abbandonata da papi e imperatori, che contrappone Cola di Rienzo, tribuno del popolo e le famiglie Colonna e Orsini, diventa sempre più feroce e sanguinosa, in un clima di perenne sommossa e incombente rivoluzione.

In questo panorama già cupo, nel 1348 giunge anche nell’Urbe, come nel resto d’Europa, la prima grande epidemia di peste, che sconvolgerà e provocherà grandi lutti in tutto il continente. Per fortuna, Roma sembra esserne toccata meno rispetto ad altre città. Ma non appena i romani stanno per risollevarsi dalle ferite e costruiscono in ringraziamento, per lo scampato pericolo, la grande scalinata dell’Ara Coeli, il 9 settembre 1349, la città è squassata da un violento terremoto che ha epicentro in Abruzzo.

Per Roma è un disastro: il più grande evento sismico di cui si abbia memoria. Vengono distrutti il campanile della Basilica di San Paolo, una parte della Torre delle Milizie, molte case del Laterano e dei rioni limitrofi. Si registrano danneggiamenti anche alla Basilica di San Giovanni in Laterano, a San Pietro in Vaticano, all’Anfiteatro Flavio, all’Arco di Costantino, alla Basilica di Massenzio e al Pantheon.

Inizia così, appena un mese dopo, il secondo Giubileo della cristianità, quello del 1350. Uno strano Giubileo, l’unico della storia che avviene in assenza del papa. Sarà solo il pallidissimo ricordo di quello grandioso di cinquant’anni prima, in una Roma che, nel combinato composto di crisi, peste e terremoto, appare una “ghost city”, quasi spettrale.

 

Tra i pellegrini, giunge in città anche Francesco Petrarca, il quale, pur rimanendo ammirato dai resti dell’antica grandezza dell’Urbe, non può fare a meno di notare lo stato di estremo degrado in cui la città versa, tanto da essere ridotta a “mera ombra dell’antica”. Le opere pubbliche sono state interrotte, mentre strade, case, chiese cadono in abbandono. La malavita imperversa, bande armate assalgono le case e le saccheggiano, in più le lotte fra le potenti famiglie nobili sono tali che si è praticamente all’anarchia.

Qualche anno dopo, scrivendo al papa Urbano V, per esortarlo a lasciare Avignone e a fare ritorno a Roma, Petrarca così avrebbe descritto la situazione della città: “Come puoi, perdona, o clementissimo Padre, l’ardito linguaggio, dormire tranquillo sotto i tetti dorati in riva al Rodano, mentre il Laterano cade in rovina e la chiesa che è madre di tutte, scoperchiata, non ha difesa dai venti e dalle piogge, vacillano le sante case di Pietro e di Paolo e dove non molto tempo fa sorgeva il tempio sacro agli apostoli non si vedono che macerie e rovine, il cui aspetto deforme forzerebbe al pianto anche chi avesse un cuore di pietra?”.

Ma papa Urbano non si lasciò convincere. La decadenza di Roma proseguì per altri cinque lustri, al termine dei quali alcuni ricercatori dissero che la città non contasse più di tremila abitanti. Forse esagerano per difetto, ma certo Roma pareva ormai destinata a diventare un piccolo borgo, grande solo per le sue rovine, quando finalmente, nel gennaio del 1377 papa Gregorio XI fa il suo rientro in città.

Le turbolenze romane non finiranno per miracolo da un giorno all’altro, ma certo quel ritorno del papa, sarà un nuovo passaggio cruciale per la città, che di lì a poco potrà vivere un forte risveglio culturale, artistico, politico, dando inizio alla grande Roma del rinascimento, con quella trasformazione – in questo caso positiva – che avrebbe dato all’Urbe il volto che ancora oggi conosciamo.

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