Manganelli, l’uomo delle ombre

A 100 anni dalla nascita, Nino G. D’Attis traccia un ritratto dello scrittore Giorgio Manganelli. Negromante della letteratura “consono al nomadismo dell’immaginazione”, nella definizione del filologo Salvatore Silvano Nigro.

 

“Non so se sono “scrittore”, termine che sa di toponomastica di quartieri alti o, alternativamente dell’estrema periferia; ma sono certo di possedere una macchina da scrivere.”

(Giorgio Manganelli)

Cent’anni dalla nascita di Giorgio Manganelli – il 15 novembre 1922 – cinquantotto dall’uscita di Hilarotragoedia (prima edizione Feltrinelli, poi numero 175 della collana Biblioteca Adelphi). Prima, dopo e in mezzo, tutta una vita di traduzioni, consulenze, curatèle editoriali, corsivi, saggi critici e opere di prosa e poesia, incontri e interviste impossibili per la radio della Rai (a Mangiafoco/Vittorio Gassman, a Fregoli/Paolo Poli, al Califfo di Baghdad, Tutankhamon, Nostradamus, Casanova con la voce polifonica di Carmelo Bene).

   Dopo – solo dopo la sua scomparsa a Roma il 28 maggio 1990, nella casa in via Chinotto 8, quartiere Prati – una fiumana di ripubblicazioni, tributi, convegni, miscellanee, biografie (non ultimo il volume Giorgio Manganelli. Aspettando che l’inferno cominci a funzionare, firmato dalla figlia Lietta).

   Un incompetente, ebbe a dichiararsi. Autore di “libercoli”, di “trattatelli”, pertanto legittimato a sfidare con coraggio da leone la pagina bianca avanzando pretese apparentemente assurde meglio di chiunque altro. Un disubbidiente alle regole della vendibilità nel mercato editoriale (a onor del vero meno ottuse di quelle correnti, negli anni in cui visse ed ebbe modo di pubblicare). Negromante della letteratura “consono al nomadismo dell’immaginazione”, nell’eccellente definizione del filologo Salvatore Silvano Nigro.    

   Soliloqui. Parodie. Singolari scritti di viaggio dall’Africa, dall’India, la Cina, e sull’arte e i luoghi dell’arte (perentorio il parere sui musei, visti come luoghi di frode, di custodia di “quelle cose ambigue e un poco sinistre che sono i capolavori”). Rivisitazioni fuori dai margini (il Pinocchio rimaneggiato, ricombinato dopo aver fatto a pezzi sul tavolo autoptico il corpo dell’originale di Collodi; l’Ulisse vecchio e stanco che ama Penelope ma ha nostalgia di Circe ed è per giunta refrattario al richiamo del viaggio per mare poiché nauseato dall’acqua salata). Monologhi sul fallimento. Ragionamenti intorno alle molte maschere degli uomini,  alla vocazione tutta umana all’opacità, l’annichilimento, l’autodistruzione. E una spiccata, se vogliamo indisponente predisposizione al non detto, ai giochi di specchi, al divagare nei meandri dell’equivoco, del fuori luogo. Fino alla fine, all’ultimo lavoro dato alle stampe da vivente: Encomio del tiranno, sottotitolo Scritto all’unico scopo di fare dei soldi, dove la ribalta appartiene al buffone di corte tanto quanto all’invisibile “principe rinascimentale, uomo di occulti e temerari progetti”.

   Esiste un universo Manganelli, sconfinato e disseminato di stelle morte, pianeti inospitali, satelliti artificiali fuori uso a imperitura testimonianza di quel nulla affollato di fantasmi che la parola può evocare. Esiste e ha inglobato le galassie di Sherazade, Omero, Shakespeare, Borges. Per me, come lettore, la sua manifestazione è avvenuta solo pochi anni fa, proprio con quell’esordio ilare e tragico che esplorava la natura “discenditiva” dell’uomo verso l’Ade. Oggetto letterario non identificato che affronta il tema della morte, dunque necessariamente notturno (“Ma vi sarà una notte improba, ventosa, piovorna e amara; notte da tabarri, da pulizia grande sulle lapidi dei cimiteri; notte da cosce coniugali, caritatevoli e pigre; notte in cui ci si schiaccia contro la crosta del pianeta che ci vortica”).

   Di figure della notte, di anime che si affacciano da angoli bui dell’ultraterreno o del troppo terreno, l’intera opera manganelliana è un deposito vasto e sorvegliato da intenditori; un hangar edificato per ospitare astronavi pronte a decollare per destinazioni ignote, regioni poco esplorate dell’inconscio.

   In High Tea, radiodramma del 1974 che avrebbe dovuto dirigere Carmelo Bene e subì la censura della Rai, immaginò Gesù, Maria Maddalena, Edipo e Giocasta, Amleto e Ofelia riuniti per un tè aldilà del tempo e dello spazio. A dir poco illuminante l’incipit di Agli dèi ulteriori (Adelphi, 1989): “Che io sia Re, mi pare sia cosa da non dubitare. V’è in me un modo regale di pensare, di opinare, di fantasticare, che non finisce di stupirmi e di allietarmi. Non riesco a pensare a cose umili e povere; ogni cosa deve avere un nome, collocarsi in una gerarchia, incedere o strisciare, ma in modo emblematico.”

   Confessava di non possedere un apparecchio televisivo. Non andava frequentemente al cinema, ma forse gli sarebbe piaciuto vedere Inland Empire, un film di David Lynch che molto ricorda il suo approccio al mondo delle ombre.

 

In libreria:

Alessandro Gazzoli, Auto da fé. Rileggere Giorgio Manganelli (Mimesis, 2022).
Lietta Manganelli, Giorgio Manganelli. Aspettando che l’inferno cominci a funzionare (La Nave di Teseo, 2022).
Giorgio Manganelli, Poesie (Crocetti, 2022).
Giorgio Manganelli, Di buio in buio (Aragno, 2022).
Andrea Cortellessa, Marco Belpoliti (a cura di), Giorgio Manganelli (Quodlibet, 2022).
Andrea Cortellessa, Filologia fantastica. Ipotizzare, Manganelli (Argolibri, 2022).

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