A gonfie Vele

A Roma, nella zona di Tor Vergata, all’altezza dell’imbocco dell’autostrada Roma-Napoli, c’è una stupenda e inutile piramide di ferraglia, che ha tutta l’aria di una vera e propria cattedrale nel deserto. È ciò che resta del faraonico progetto della “città dello sport”: le cosiddette “Vele” dell’architetto Santiago Calatrava. Vele al plurale, anche se al momento se ne vede una sola.

La vicenda delle Vele molti di voi la conoscono. Ne parlammo anche qui su Romareport qualche tempo fa. Ideate per farvi svolgere i mondiali di nuoto del 2009, dovevano essere il fiore all’occhiello della Roma veltroniana, quella che tutti ammiravano, quella che sembrava correre il doppio rispetto al resto della nazione.

Correva così veloce Roma che, come accade a certi maratoneti partiti a passo troppo sostenuto, si è impiantata all’improvviso sul posto, senza riuscire più a muoversi. Esattamente come accaduto anche alle Vele, il cui costo iniziale di 60 milioni di euro, era nel frattempo cresciuto undici volte, arrivando a 660 milioni.

Troppo per qualunque giunta, di qualunque colore politico. E così quelle Vele erano rimaste sospese a metà. Una prima Vela, sebbene non ultimata, cominciò a fare sfoggio di sé, ma la seconda, prevista e iniziata, era poi rimasta nel mondo delle idee e dei costosi progetti su carta, nel frattempo pagati all’archistar di origine spagnola.

Così si è proseguito nei successivi anni, tra continui “stop and go”. Quando in Campidoglio va a sedersi Alemanno e si profila all’orizzonte l’ipotesi di olimpiadi a Roma, i lavori ripartono per un po’. Poi i soldi finiscono un’altra volta, l’olimpiade sfuma e tutto si ferma di nuovo.

Ignazio Marino non vuole essere da meno e fa intervenire nientemeno che l’Università di Tor Vergata. Si pensa di trasformare l’impianto in un avveniristico orto botanico. Si studia, si medita, si parte con accordi di massima. Poi puff, anche l’orto botanico sfuma, mentre si aprono contenziosi di vario tipo fra il Comune e l’Università.

Ai tempi di Virginia Raggi, delle Vele sembrerebbe quasi essersi dimenticati, quando ecco che nel 2020 paiono spuntare 300 milioni forniti dallo Stato. Se ne parla. Si fanno titoli di giornale. Si studiano ulteriori progetti di trasformazione. Poi un nuovo nulla di fatto.

Ed eccoci a Roberto Gualtieri. Adesso c’è il mitologico PNRR, cioè una valanga di denaro. C’è il Giubileo 2025 che dà al sindaco poteri speciali. E c’è pure Expo 2030, altro progetto, tanto ipotetico quanto faraonico, in perfetto stile olimpiadi. Perché non approfittarne per farla proprio lì l’Expo?

Riparte il bla bla su come trasformare l’impianto, su come prolungare la metro C per farla arrivare proprio in corrispondenza delle Vele. Altri titoli di giornali, altri progetti, altri disegni e altri rendering, tanto fantasiosi quanto affascinanti. Intanto il tempo passa e chissà se stavolta sarà galantuomo.  

Quello che nessuno pare avere capito, però, è che quelle Vele sono belle così: un rudere inutile e dal plurale incongruo. Perché solo così, senza utilità, senza prospettive e senza funzione, riescono ad essere la perfetta metafora della Roma del duemila.

Una Roma fatta di chiacchiere, di ipotesi, di annunci. Una Roma in cui ogni nuovo sindaco promette sfracelli e rivoluzioni. Una Roma in cui non accade mai nulla di concreto.

Una Roma capace di prendere il vento per partire lontano, proprio come riescono a farlo quelle Vele che sono una vela sola, di ferro arrugginito, inadatte a navigare, a seguire una rotta, a indicare un percorso.

Roma, come le Vele, è solo il rudere del proprio passato. Non solo quello antico e nobile dell’età dei Cesari, ma anche quello recente di appena venti anni fa.

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