La “piccola” via Rasella

Si mangia ancora in quel seminterrato di via Fabio Massimo, a Prati. Oggi c’è un ristorante gourmet. Ha aperto da poco e chissà se i nuovi gestori, che vengono dalla Calabria, conoscono a fondo la storia di quel luogo. C’era la Trattoria Antonelli lì, in quella sera di dicembre del 1943. Era un sabato.

Prima i giornali semiclandestini di sinistra e poi i racconti di alcuni gappisti – i membri dei Gruppi di Azione Patriottica, i famosi GAP – dissero che quella sera vennero uccisi circa una ventina tra tedeschi e fascisti. Altre fonti indicarono invece che, probabilmente, alla Trattoria Antonelli fossero morti soprattutto operai italiani.

La trattoria era un punto di ritrovo dell’Organizzazione Todt, un ditta di costruzioni tedesca, sotto il diretto controllo di Albert Speer, all’epoca dei fatti ministro tedesco degli armamenti e della produzione bellica. L’organizzazione, che operava in tutti i territori occupati dal terzo Reich, si avvaleva spesso di manovalanza locale.

Tutti i suoi dipendenti erano riconoscibili da una fascia color terra sul braccio, riportante in nero la scritta: “Arbeitet fur OT” cioè “Lavora per OT”, dove OT stava per l’appunto per Organizzazione Todt, così chiamata dal nome del suo defunto fondatore.

La versione dei partigiani

“Audace attacco contro un covo di tedeschi e fascisti” titolò l’Unità a fine dicembre di quell’anno. “La sera del 18 corrente, alle 19,30, una grossa bomba è stata lanciata in una trattoria sita in via Fabio Massimo, dove da qualche tempo solevano radunarsi a gozzovigliare nazisti e militi fascisti. L’esplosione potentissima ha sconquassato il locale. Almeno dieci sgherri fascisti ed altrettanti tedeschi vi hanno trovato la morte o ferite gravi”.

Se l’organo comunista gioiva per la riuscita dell’attentato, quello socialista cominciò fin da subito ad andarci più cauto, riducendo di molto il numero delle vittime: “Un tedesco ed otto italiani sono rimasti uccisi – scrisse l’Avanti – mentre i feriti ammontano a quattordici”. Cominciava così una guerra di numeri e di versioni contrastanti, mai del tutto risolta, che ha generato non pochi dubbi sul reale andamento di quell’episodio.

L’attentato alla trattoria fu rivendicato dal partigiano comunista Roberto Forti. In una relazione stilata nell’immediato dopoguerra, così scriveva su di lui: “Il 18 dicembre condusse un’importantissima azione di guerra contro militari germanici, attaccandone un gruppo nei pressi di via Fabio Massimo verso le ore 22. Mentre in altra parte della città un gappista attaccava alla stessa ora i nemici che uscivano dal cinema Barberini, il Forti con un gruppo di partigiani attaccava con spezzoni una dozzina di nazisti, che rimasero tutti sul terreno”.

Dunque, nessuna delle tre versioni sin qui analizzate coincide, né per l’orario, né per il numero o la nazionalità delle vittime. Un’ulteriore versione è poi quella presente nel rapporto dei GAP nazionali, relativo al 1943, che parla di 15 nemici uccisi, senza specificare se fossero italiani o tedeschi.

I dubbi successivi

Come mai queste incongruenze? Al di là delle possibili ragioni di propaganda, potrebbe darsi che molta della confusione sia sorta a causa proprio di quella fascia al braccio degli operai dell’Organizzazione Todt di cui abbiamo parlato in precedenza. Le scritte in tedesco potrebbero aver indotto i gappisti a pensare che tedesca fosse anche la nazionalità degli operai presenti nella trattoria. Da qui l’indicazione iniziale di dieci tedeschi morti.

Come detto, però, l’Organizzazione Todt faceva largo uso di manovalanza locale, spesso arruolata anche con la forza e Roma, in questo, non faceva eccezione rispetto alle altre zone di occupazione. Dunque, più che da nazisti, la Trattoria Antonelli era frequentata principalmente da operai di nazionalità italiana, sebbene impiegati di quella ditta tedesca, operai le cui effettive simpatie naziste restano tutte da verificare.

Questa probabile confusione spiega anche il perché, una volta istillatosi questo dubbio anche fra i gappisti – resosi forse conto di aver scelto un obiettivo di scarsa rilevanza politica e militare, oltre che simbolica – anche dopo la guerra e la liberazione, l’attentato di via Fabio Massimo sia rimasto un po’ in penombra, non beneficiando di quella stessa narrazione eroica che ha accompagnato altri attentati dei GAP, a partire da quello di via Rasella.

Le versioni alternative

Se il primo a rivendicare la paternità dell’attentato fu Roberto Forti, altri sedicenti autori si fecero avanti in seguito. Tra questi Guglielmo Blasi, un ex gappista passato poi a collaborare con la polizia fascista, che a guerra finita rivendicò anch’egli il compimento dell’azione. La dichiarazione di Blasi risulta però priva di riscontri, oltre che un po’ confusa nella ricostruzione di date, orari e modalità. Resta il sospetto che Blasi abbia voluto attribuirsi il compimento dell’azione, solo per vantare meriti resistenziali non suoi, al fine di attenuare le proprie responsabilità come collaborazionista dei fascisti.

La versione di Blasi è però riportata anche da un libro uscito nel 1965, “Il sole è sorto a Roma”, scritto proprio da Roberto Forti – il primo ad essersi attribuito l’attentato – insieme con il compagno di lotta Lorenzo D’Agostini e, con prefazione di Giorgio Amendola.

In questo testo si legge che nella trattoria “gozzovigliavano e ballavano dalla mattina alla sera, al suono di allegre musichette, soldati germanici, italiani collaborazionisti, spie e donne dai facili costumi”. Nella versione del libro, Forti si recò lì con due compagni, fra cui Blasi, che discese le scale e lanciò nella sala una bomba, lasciando il locale semidistrutto senza che nessuno dei presenti uscisse incolume.

I finti fidanzatini

Nel 1998, Fulvia Trozzi, ausiliaria dei GAP, allora fidanzata e poi moglie del loro comandante Antonello Trombadori, rivendicò anche lei l’attentato, dandone una versione ulteriormente diversa. Innanzi tutto parlò di una trattoria “frequentata solo da SS”. Ma, soprattutto, raccontò di modalità totalmente difformi rispetto a quanto ricordato dagli altri sedicenti attentatori.

In base a quanto dichiarato da Fulvia Trozzi, quella sera di dicembre lei scese nel locale come se fosse una normale cliente, arrivando lì insieme a un altro gappista, che si finse il suo fidanzato. I due cenarono tranquillamente nella trattoria. Poi, a fine serata, la coppia avrebbe lasciato sotto il tavolo un ordigno esplosivo camuffato da libro.

Secondo Fulvia Trozzi l’esplosivo nel libro era di bassa intensità, anche perché l’attentato non aveva la finalità di uccidere nessuno, ma solo di svolgere un’azione simbolica: “Non ci furono morti – disse – ma quell’episodio ha segnato i primi momenti della resistenza di Roma, ha dato il via alla conferma che noi esistevamo”. Neanche a dirlo, però, anche questa ricostruzione è priva di prove e di riscontri.

La versione della polizia

Una versione ancora diversa è quella che risulta dai rapporti della polizia fascista. Secondo il rapporto stilato nei giorni immediatamente successivi, l’attentato ebbe luogo alle ore 20 di sabato 18 dicembre 1943, provocando la morte non di militari tedeschi, bensì di operai di nazionalità italiana. Anche il diario di guerra del Comando tedesco di Roma riportò che l’attacco alla trattoria uccise nove italiani, mentre non si menzionava alcuna perdita tra le forze tedesche.

“Veniva lanciato, attraverso il vetro rotto di una finestra, un ordigno esplosivo nei locali della trattoria, al seminterrato dello stabile – si legge nel rapporto di polizia – Rimanevano morti all’istante 6 militi del lavoro e una donna, mentre di altre 8 persone, ferite più o meno gravi, una decedeva poco dopo all’ospedale San Giacomo. I morti ed i feriti sono in gran parte operai italiani che lavorano alle dipendenze del Comando Tedesco. Dalle indagini immediatamente svolte è risultato, come ha potuto confermare una signorina che transitava nella strada, che autore dell’atto inconsulto è stato un individuo alto, con impermeabile chiaro, che dopo aver lanciato la bomba si è dato alla fuga”.

Le tesi degli storici

Neanche le successive ricerche storiche hanno mai chiarito del tutto la dinamica dei fatti. Nel suo “Storia della Resistenza romana”, un testo del 1965, lo storico Enzo Piscitelli parlò del lancio di due bombe nella trattoria, frequentata da tedeschi e fascisti, con un bilancio finale di sei operai e alcuni tedeschi morti.

Cesare De Simone, in “Roma città prigioniera”, pubblicato nel 1994, menziona l’attentato alla Trattoria Antonelli, descrivendola come un locale “molto frequentato da tedeschi e collaborazionisti fascisti del vicino comando germanico” e agli otto operai morti indicati dai rapporti di polizia, ne aggiunge altri due, senza però citare la fonte di questa notizia: “il giorno dopo moriranno al San Giacomo anche due soldati tedeschi rimasti feriti”.

Nel 2019, ne “La liberazione di Roma”, Gabriele Ranzato afferma invece che è “lecito dubitare che ci siano state in quell’attentato vittime tedesche”. A riprova di questo, nel libro si sottolinea anche l’assenza di qualsiasi rappresaglia da parte tedesca, dopo i fatti di via Fabio Massimo, come invece avvenuto in occasione della strage delle Fosse Ardeatine.

Ranzato aggiunge comunque che l’esagerazione del numero di vittime e la confusione sulla loro nazionalità, da parte delle fonti vicine ai GAP “non deve stupire, né suscitare particolare riprovazione”, dal momento che è tipico della propaganda di guerra enfatizzare le proprie azioni belliche e le perdite inflitte al nemico.

Comunque siano andate le cose, quello di via Fabio Massimo resta uno dei primi atti significativi della lotta partigiana a Roma. Tre mesi dopo, l’attentato di via Rasella del marzo 1944, avrebbe aperto un nuovo e ben più importante capitolo.

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