Il sovranismo alimentare è una bufala

La sovranità alimentare riguarda la sicurezza, prima di tutto quella di avere cibo a sufficienza per tutti. Il sovranismo alimentare invece è una bufala, basata sul principio che “il cibo di casa mia è sempre meglio”. Qualche esempio.

Noi che viviamo in una parte del mondo sufficientemente benestante – dove normalmente non si muore di fame, ma casomai di disturbi legati all’alimentazione eccessiva e/o cattiva – tendiamo a pensare alla sicurezza alimentare come a una questione di qualità: la difesa del cibo da inquinamenti, contaminazioni, truffe.

Nei Paesi in via di sviluppo si tratta invece soprattutto di una questione di quantità. Per intenderci: avere cibo a sufficienza. Questa è sovranità alimentare: la “politica che implica il controllo politico necessario ad un popolo nell’ambito della produzione e del consumo degli alimenti”, come recitava la definizione del movimento altermondalista Via Campesina oltre 20 anni fa.

Il “sovranismo alimentare”, invece, è una bufala, basata sul principio che “il cibo di casa mia è sempre meglio”, quello di “Compra italiano”, di solito per le ragioni sbagliate.

Foto di Cyclonebill diffusa su Flickr con licenza creative commons

 

Km zero fa bene al clima, ma non per forza è meglio

In generale, è meglio consumare alimenti che provengono da località vicine piuttosto che lontane non per una questione di qualità – la qualità dipende da diversi fattori, e si può certificare anche se la produzione avviene lontano dal luogo di consumo – ma principalmente per ridurre l’impatto dei gas a effetto serra prodotti dal trasporto dei beni. 

Poi ovviamente c’è anche la questione dei giusti tempi di maturazione, se volete, di evitare sistemi di conservazione troppo energivori e che possono alterare la qualità (il contenuto di vitamina C nelle verdure, per esempio, si riduce mediamente del 50%).

Certo, se poi l’insalata viene dall’orto del vicino che sorge lungo una strada trafficata ed è innaffiato con acqua contaminata, be’… allora forse è meglio andarla a comprare più lontano.

Ancora, è meglio consumare alimenti di stagione, sia perché secondo numerosissimi studi sono più nutrienti nel loro ciclo abituale di crescita, sia perché si evita di farli trasportare da luoghi lontani in cui magari crescono in quel momento (sempre per ridurre l’emissione di gas a effetto serra), o anche perché così non serve produrli in serra (cosa che implica un maggior consumo energetico). E, ultimo ma non ultimo, perché costano meno.

(È chiaro che questo discorso non vale, ad esempio, per le banane, che non hanno stagionalità, non crescono in Italia e si pagano poco, anzi, troppo poco: sia rispetto a quanto dovrebbe andare ai coltivatori, che vengono sottopagati, sia ai costi ambientali che alla fine paghiamo tutti. Senza parlare ovviamente del valore nutrizionale che cala con la conservazione).

Ancora: è meglio, in questa ottica di produzione locale e stagionale, che comunque deve sfamare un bel po’ di gente, disporre di più colture, più varietà vegetali, più varietà di cibo in generale, e non solo di grandi monoculture, o monoallevamenti, per una questione di sicurezza alimentare, cioè di fonti di approvvigionamento.

Foto di Jeremy Keith diffusa su Flickr con licenza creative commons

Il nazionalismo alimentare

Torniamo al sovranismo alimentare, che in fondo è una variante del nazionalismo. Anni fa, la giunta Alemanno a Roma eliminò i “menù etnici”, in nome, appunto del principio “meglio i piatti italiani”. O meglio ancora, “prima i piatti romani”. Basterebbe ricordare che i pomodori vengono dall’America, come le patate, due pilastri della nostra alimentazione (anche il mais). Cioè, sono entrati nei nostri menù da 500 anni o anche meno. Le tradizioni nascono dalle invenzioni, dalle scoperte. E quella dell’agricoltura è una lunghissima storia di scoperte, incroci, trasferimenti, introduzioni. Lo stesso vale per la cucina, con buona pace dei “sovranisti della forchetta”.

Poi ci sono anche le produzioni nazionali a cui non riusciamo a stare dietro, come i ceci (anche loro “italiani al 100% in varie pubblicità). Dopo la parabola discendente che in 50 anni ha visto una riduzione dei terreni coltivati da 110.000 ettari a 3.400 ettari, i consumi sono risaliti negli ultimi tempi. L’Italia è il 17esimo produttore mondiale di ceci, ma oggi è comunque costretta a importarne, per soddisfare il consumo. Dai dati di import del 2017 si deduce che su 10 kg consumati in Italia, 6 kg sono importati. Quindi, il problema è che non produciamo abbastanza ceci, oggi, non che quelli prodotti all’estero non sono buoni come i nostri. E comunque, se poi mangiamo ceci conservati, non freschi, probabilmente cambierà poco se vengono dall’Italia o dalla Spagna, che è il primo produttore europeo.

E c’è pure il “localismo alimentare”, come nel caso del latte. Il latte delle mucche romane è migliore di quello delle mucche, che so, di Bologna? Secondo i test di Altroconsumo, il latte della Centrale di Roma (quello fresco alta qualità), con origine dichiarata nel Lazio, è di qualità buona. Ma quello prodotto da Parmalat (proprietà della francese Lactalis), con origine genericamente in Italia, è meglio, e la qualità viene definita ottima. E costa anche meno. Certo, per portare il latte della Centrale nelle case dei romani si fa meno strada, e quindi si inquina meno e si produce meno CO2. 

Sempre a proposito di latte, ma in in questo caso di pecora. La vicenda del prezzo basso pagato ai produttori di pecorino sardo, nel 2019, ha fatto venire allo scoperto una notizia significativa, e cioè quella che il famoso pecorino romano è fatto circa all’80% di latte di pecora sardo. E quindi? Prima il romano? O prima il sardo?

Foto di Michela Simoncini diffusa su Flickr con licenza creative commons

 

Prodotti “stranieri”?

La Fanta, come dovrebbero sapere tutti, è uno dei prodotti di punta della Coca-Cola Company, cioè la multinazionale per eccellenza, quella che ha inventato di fatto l’immagine e la tradizione di Babbo Natale come la conosciamo (con buon pace di quelli che ritengono Halloween un prodotto d’importazione americano lontano dalla nostra tradizione). È una bevanda gassata che dal marzo 2018 deve contenere – per legge – almeno il 20% di succo di frutta (in precedenza conteneva il 12% di succo e anche il 12% di zuccheri, a leggere le etichette) Poi esiste anche la Fanta rossa Zero Zuccheri aggiunti con succo di arance Rosse di Sicilia IGP. Ovviamente non si tratta di una spremuta: le arance “100% italiane”, come dice la pubblicità, sono comunque quelle che fanno il succo concentrato, cioè il 20% del prodotto complessivo.

Magari però siete sovranisti e non volete comprare la Fanta, nonostante usi arance di casa nostra, perché è americana. Allora comprate la Sanpellegrino, che è sempre fatta al 100% con arance italiane. Però, occhio: il marchio Sanpellegrino appartiene alla Nestlé, un’altra multinazionale, ma svizzera.

Preoccuparsi della qualità di un alimento è importante. La produzione locale è importante, per questioni di sicurezza alimentare (nel senso di disponibilità di cibo; ma non è sempre detto che sia a prezzi migliori, per le dinamiche dei mercati, che considerano il cibo una commodity), per l’impatto sul clima, per le qualità nutrizionali. Tutto il resto, però, è soltanto slogan.

Si può comprare un prodotto italiano, anche se la proprietà dell’azienda è straniera. Dal punto di vista del consumatore, e spesso anche del lavoratore, cambia poco. Si può mangiare un piatto di origine “straniera” ma con ingredienti tutti locali (tipo l’hummus, a base di ceci). Infine, gli accordi commerciali internazionali sono importanti, anche per quello che riguarda il cibo. Ma dovrebbero sempre includere standard più alti di qualità e la disponibilità di cibo.

[La foto del titolo è di rob_rob2001 ed è stata diffusa su Flickr con licenza creative commons]

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