Bellarmino: i due volti dell’Inquisizione

Forse non c’è persona che più di Roberto Bellarmino abbia saputo racchiudere in sé, non solo il volto bifronte della chiesa di Roma – da una parte fucina di cultura e di arte raffinata, capace di generare capolavori assoluti dell’umanità come la cappella Sistina o il colonnato di San Pietro e dall’altra gendarme occhiuto ed asfissiante, attraverso la condanna sistematica di ogni forma di pensiero indipendente o ritenuto eretico – ma anche le contraddizioni che risiedono nell’animo di ogni uomo, così capace al tempo stesso di nefandezze e di meraviglie.

Raffinatissimo intellettuale, elegante scrittore, teologo, appassionato di scienza, aperto alle nuove idee del suo tempo, Roberto Bellarmino, divenuto gesuita nel 1570, fu anche il difensore dell’ortodossia cattolica, membro del Sacro Uffizio, paladino della Controriforma, inquisitore, autore di testi che si proponevano di stroncare lo sviluppo del protestantesimo.

Le sue prediche erano pensate con tanta efficacia e tanta sapienza che, quando lui parlava dal pulpito, si dice corressero ad ascoltarlo anche i protestanti, affascinati dal suo eloquio. I suoi “catolicissimi” libri furono tradotti in tutta Europa, ottenendo un grande successo in paesi anti-papisti come l’Inghilterra e la Germania. Era infatti capace di esporre in modo chiaro le posizioni della Chiesa cattolica, ma senza eccessi polemici nei confronti della Riforma, riuscendo così ad essere apprezzato anche da anglicani e luterani.

Bellarmino a Roma

Fu per questo che, nel 1587, papa Gregorio XIII lo volle assolutamente a Roma come insegnante del Collegio Romano. Il successivo papa Sisto V, però, non fu altrettanto entusiasta del suo stile e delle sue idee. Il suo modo di “giocare di fioretto e non di spada”, cioè di riconoscere dignità anche alle controparti pur nel confutare le loro tesi, non piaceva al nuovo pontefice. Al punto che, colui che sarebbe poi diventato uno degli uomini di punta del Sant’Uffizio, stava per essere accusato formalmente di eresia, mentre i suoi testi stavano per essere messi all’indice dei libri proibiti.

Furono solo la malattia e l’improvvisa morte di Sisto V a salvare Bellarmino. Tornato ad essere visto di buon occhio dai successivi papi, ripresa la cattedra al Collegio Romano, Roberto Bellarmino fu nominato cardinale e, dal 1597 divenne anche consultore del Sant’Uffizio. È in questa veste che si trovò coinvolto in due dei più famosi processi della storia dell’Inquisizione romana: quello contro Giordano Bruno e quello contro Galileo Galilei.

Il caso Giordano Bruno

Il processo contro Giordano Bruno aveva avuto inizio già nel 1593, Dal 1597, data della sua nomina al Sant’Uffizio, anche Bellarmino entrò a far parte del collegio giudicante. Detrattori e fan del cardinale non sono d’accordo sul ruolo che egli effettivamente svolse – un ruolo forse positivo o forse negativo nei confronti dell’imputato e della sua successiva condanna a morte – che risultò anche in quel caso piuttosto ambivalente.

Quello che è certo è che Bellarmino ebbe alcuni colloqui con Giordano Bruno. C’è chi dice che egli tentò di portarlo ad abiurare per salvargli la vita. Altra cosa certa è che, durante il processo, venne fatta esaminare a Bellarmino una dichiarazione di Giordano Bruno su otto proposizioni che gli erano state contestate come eretiche.

Il 24 agosto 1599 Bellarmino riferì alla Congregazione che Giordano Bruno aveva ammesso come eretiche sei delle otto proposizioni, ma sulle altre due la sua posizione non era chiara. La completa ammissione gli avrebbe risparmiato la condanna a morte, che invece fu poi eseguita nel febbraio del 1600. Quanto quel rapporto di Bellarmino sia risultato più o meno determinante ai fini della sentenza, non è mai stato chiarito.

Il caso Galileo Galilei

Il ruolo per il quale Bellarmino è passato alla storia, è però quello che lo vide contrapposto a Galileo Galilei, nella prima inchiesta organizzata dal Sant’uffizio per le tesi eliocentriche propugnate dallo scienziato pisano.

Dopo una denuncia contro Galilei presentata al Sant’Uffizio nel 1615, fu proprio Bellarmino a condurre quell’inchiesta. È qui che Bellarmino diede il massimo sfoggio di quella che qualcuno ha considerato la sua ambivalenza, qualcun altro ha invece considerato come la sua estrema saggezza e la sua raffinatezza intellettuale e politica.

Innanzi tutto c’è da dire che il cardinale Bellarmino instaurò subito rapporti decisamente cordiali, se non addirittura amichevoli, con lo scienziato, esprimendo una posizione aperta nei confronti di Galilei, sostenendo di non poter escludere l’attendibilità della teoria eliocentrica, però consigliando prudenza, suggerendo perciò di proporla solo dopo che se ne avesse avuta la prova concreta e definitiva.

L’ammonimento del 1616

Dunque, Bellarmino consigliò a Galileo di tenere una sorta di “basso profilo”, di saggio compromesso politico, insegnando pure le sue teorie ai propri allievi ma senza darne troppa pubblicità, al fine di non suscitare le ire della chiesa e di non far pronunciare una sentenza di condanna che avrebbe compromesso gli studi del Galilei.

Pare però che Galilei, convinto delle proprie teorie e meno esperto in strategie politiche, non accettò il consiglio, chiedendo una totale accettazione delle proprie tesi. Come temuto da Bellarmino, questo portò a una prima condanna del Sant’Uffizio rispetto all’eliocentrismo e a un ammonimento nei confronti di Galilei.

Bellarmino compilò una dichiarazione nella quale si affermava che comunque non era stata impartita nessuna penitenza, né richiesta alcuna abiura al Galilei per aver difeso la tesi eliocentrica, ma gli era stato comminato solo un ammonimento verbale, con divieto di pubblicazione delle sue tesi, a riprova del fatto che non era stato avviato alcun procedimento giudiziario contro di lui.

Il processo a Galilei

Dunque, finché il cardinale Bellarmino rimase in vita, Galileo Galilei non subì nessuna condanna formale. È per questo che la figura di Bellarmino è stata spesso presentata come quella di un abile giocatore di poker, formalmente e per ruolo dalla parte della Chiesa, ma intimamente d’accordo con Galilei e sempre capace di trovare una soluzione in grado di tenere insieme sia il suo ruolo pubblico che le sue convinzioni private.

Ma dopo la sua morte, avvenuta nel 1621, per Galileo venne meno la spalla e l’aiuto che aveva trovato all’interno del Sant’Uffizio. Rimanevano attivi, invece, alcuni suoi nemici, come padre Seguri, che compilò un falso verbale, attribuito proprio a Bellarmino – che, ormai defunto, non poteva più smentire – in cui si ammoniva Galilei, pena il carcere, di non insistere nella difesa della tesi eliocentrica. Questo falso documento fu poi utilizzato nel processo contro Galilei, che si aprì ne 1633 e che portò alla condanna dello scienziato.

Dichiarato anto dopo la sua morte, il cardinale Bellarmino suscita ancora adesso, tra gli studiosi, dei sentimenti contrastanti. C’è chi lo considera la quintessenza del doppiogiochismo un po’ pilatesco, di una chiesa che anche quando riconosce le ragioni di chi la critica, non arriva mai a una vera autocritica. C’è chi invece ribalta tutto, riconoscendogli grandi abilità diplomatiche e intellettuali, considerandolo perciò come uno dei maestri del compromesso, di quell’equilibrio fra opposti indispensabile per ottenere risultati efficaci sul piano concreto e non solo su quello ideale. Una qualità che è stata forse il tratto caratterizzante non solo del cardinale Bellarmino, ma di tutta la storia della Roma papalina e anche di quella degli ultimi centocinquant’anni.

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