Cinema, “Confidenza” di Daniele Luchetti. Il vuoto dell’insoluto.

Tra ossessioni e paranoie, si svolge nell’arco di oltre trent’anni la storia tratta dal romanzo di Domenico Starnone, Premio “Strega” 2001, scrittore campano particolarmente amato da cineasti quali Silvio Orlando, Gabriele Salvatores e in primis Luchetti.

Il coro della critica ha accolto positivamente il film e non se ne comprende il motivo, a parte una certa tendenza a fare ‘copia e incolla’ sbagliando clamorosamente gli stessi elementi del film.

In tutte le critiche si definisce “narcisista, spregevole” il personaggio del professore di matematica Pietro Vella, interpretato da un magistrale Elio Germano – cui andrebbe, unico, una “Coppa Volpi” a Venezia – capace di dare respiro alle nevrosi di un uomo che aspira alla tranquillità ma che si consegna nelle mani di una paranoica.

Per procedere con ordine, alla fine degli anni Ottanta (non ben specificati, in un film in cui ogni salto temporale è rappresentato dal banale escamotage di una porta buia) Pietro spinge una sua ex allieva, Teresa Quadraro, a riprendere gli studi e laurearsi in matematica. Lui si innamora di lei, lei è incapace di amare ma è perfettamente in grado di dominare e rendere instabile Pietro, che negli anni sarà peraltro condizionato da una squadra di donne virago rappresentate nel film come autentiche manipolatrici, dalla moglie alla figlia, dalla gelida Teresa a una tentata amante. Non esiste, nella vicenda, una donna realmente capace di amare e accogliere Pietro per quello che è: un uomo dal carattere forse debole e sicuramente nevrotico, con la costante paura del vuoto evocata da riprese dall’alto e ovvie tentazioni di suicidio di un topo in trappola. Una sofferenza che un “modello maschile tossico e narcisista”, secondo le parole del regista su “Cinematografo”, non sarebbe capace di provare.

Nel corso della loro convivenza, Teresa, per raggiungere il totale dominio mentale su Pietro, chiede di confidarsi, l’uno all’altra, un segreto tale da “distruggere la vita” e, da quel momento, lei lo ricatterà fino alla caotica e incomprensibile conclusione del film. Se ne avesse avuto il coraggio, il regista avrebbe potuto approfittare della tecnica e del fascino di Giordano per affrontare i gangli di un rapporto sadomasochista, ma Luchetti ha dichiarato che “ai film a tesi preferisco i film a ipotesi” e il risultato si vede: Teresa scompare, riappare, chiede qualsiasi cosa a Pietro (tra cui un “matrimonio etico” a un uomo sposato con una ex collega) giocando sul tipico senso di colpa di chi, come Pietro, si pone quale vittima sacrificale. Teresa non prova nulla per lui e il finale volutamente onirico non porterà mai alla luce l’inconfessabile segreto di entrambi. Unica idea intelligente della trama è la paradossale ascesa nella professione di Pietro in contrasto con la sua progressiva destabilizzazione psicologica: peccato non venga sviluppata.

Un elogio, invece, alla fotografia di Casalgrandi, che conferisce eleganza al film; indovinata la colonna sonora di Thom Yorke che sottolinea il movimento nella narrazione.

Se Luchetti o Starnone volessero cortesemente spiegare agli spettatori, dopo due ore e un quarto di un film claustrofobico, non tanto il ‘terribile’ segreto, quanto gli eventi del surreale finale, sarebbe un valore aggiunto a un film accattivante. E’ stato citato, in alcune critiche, il grande Alfred Hitchcock per la tensione che, oggettivamente, in “Confidenza” evolve e coinvolge, ma Hitchcock offriva un finale chiaro, senza ombre di narcisismo. Il ‘così è se vi pare’ di Luchetti non evoca Pirandello, così come il finale criptico è lontano dal genio narrativo di Rainer Werner Fassbinder (da “Le lacrime amare di Petra von Kant” del 1972 a “Despair” del 1977) e, volendo proprio dirla tutta, l’angoscia dell’uomo destinato a soccombere senza conoscere il senso della propria vita, va dalla Nouvelle Vague fino a Ingmar Bergman, passando per Michelangelo  Antonioni.

In confidenza, sia chiaro.

 

 

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