Stadio Olimpico

Lo stato d’animo, quando siamo da qualche parte, è quello che conta. Perciò questa scala è attesa, speranza, drammatica incertezza del futuro.

Soprattutto però, la prima volta che ciascuno la percorre, è rivelazione.

Non c’è dubbio che un tempo, col televisore in bianco e nero, la botta fosse assoluta e mozzafiato.

Ma anche adesso che l’alta definizione entra nelle vite insieme alle tabelline, e qualche volta prima, la scalinata d’accesso allo Stadio Olimpico, quando lo sguardo sbuca fino a includere tutto quanto, fa una certa impressione.

Un ingresso può valere l’altro, e verrebbe da scegliere la Curva Sud, se non fosse che è l’unico punto da cui non la si vedrebbe. Che invece quel posto ti calamita lo sguardo da quando ti vestiva mamma, e giocava Scaratti.

Quando arrivi alle rampe dello stadio tecnicamente sei già dentro, perché hai oltrepassato i cancelli, ma è architettonicamente chiaro che non è così.

Primo blocco di scale, pianerottolo; secondo blocco di scale, pianerottolo, bagni. Dopo, casomai.

Terzo blocco. Con la visione che comincia dal cielo, perché intanto che sali puoi guardare in su. Poi, come gli occhi superano la linea dello scalino più alto, l’orizzonte si spalanca intorno e verso il basso – spalti, pista, prato – e lo sguardo, di contro, è come se si impennasse. Al cinema, qualche volta, ci riescono col dolly.

Questa cosa può succedere a qualunque età, ma di solito hai quasi dieci anni, è una splendida domenica di sole, gli spalti sono gremiti.

Che poi tra poco pare che arrivi lo stadio nuovo, e magari questo diventerà un po’ come Campo Testaccio, con rispetto parlando.

E sarà per sempre uno dei luoghi in cui hai imparato a fare i conti col desiderio. E tutto il bene, e il malissimo, che ne può derivare.

Alessandro Mauro è l’autore di Se Roma fatta a scale (Exòrma, 2016) e Basilio – Racconti di gioventù assoluta (Augh!, 2019)

 

[La foto del titolo è di Antonio Cinotti ed è stata diffusa su Flickr.com con licenza creative commons]

 

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