I matrimoni gay a Roma nel Cinquecento

Roma è fatta a macchie: accanto ad aree intensamente abitate e costruite
grigie di cemento e traffico, spuntano – spesso resi inaccessibili da una rete 
sottile o da un antico muro – giardini malridotti, boschetti insensali, piame
parzialmente e confusamente riempiti dalla vegetazione o coltivati a un
urbani.
Capita anche a via Latina, al di qua e al di là della porta che si apre nelle
Mura Aureliane. Da una parte il caos del quartiere Appio Latino, dall’altra
ciò che resta del rione Celio, detto per secoli “il disabitato”. La chiesa di
San Giovanni a Porta Latina sorge su via Latina a pochi passi dalle mura:
costruita nel IV secolo, è ancora immersa nel verde, quasi nascosta, splendida. Immergetevi in questa oasi di tranquillità e bellezza.

Il portico medievale e il sagrato con il pozzo e il cedro vi accolgono all’ingresso, eppure qui – ha scritto Tommaso Giartosio nel suo bel libro L’O di Roma – “l’aria è ancora piena di fumo e cenere”. Perché, ha spiegato, “pochi lo sanno, io non lo scordo mai: qui vicino nel 1578 vennero bruciati sul rogo i cadaveri
di otto uomini torturati e impiccati. La loro colpa la racconta Montaigne…
‘Si sposavano maschi con maschi alla messa'”.

È una storia ancora oggi circondata dal mistero, non a caso impossibile da ricostruire per intero, come vedremo. Lo storico Giuseppe Marcocci ha scritto su questa vicenda una ricerca molto interessante pubblicata sui “Quaderni storici” nell’aprile 2010, che vi invitiamo a leggere e che qui possiamo solo riassumere. Marcocci – e Giartosio di conseguenza – per raccontare questi “eretici della carne” parte dal Viaggio in Italia di Michel de Montagne, diario che l’autore scrisse quasi quotidianamente dal 5 settembre 1580 al 30 novembre dell’anno successivo, e in particolare dal passo datato 18 malzo 1581, nel quale Montagne parla dell’antica basilica come della “…chiesa nella quale certi portoghesi avevano fondato qualche anno a una strana confraternita: si sposavano… con le medesime cerimonie che noi usiamo per il matrimonio, facevano comunione insieme, leggevano il vangelo stesso delle nozze poi dormivano e abitavano insieme”.

Il “caso” suscitò grande scalpore. Marcocci ricorda come ne parlasse anche, in un dispaccio, l’ambasciatore veneto Alessandro Tiepolo, che il 2 agosto 1578 dava notizia alle autorità di Venezia dell’arresto, pochi giorni prima, di “undeci fra portoghesi et spagnuoli, i quali, adunatisi in una chiesa ch’è vicina S. Giovanni in Laterano… si maritavano l’uno coll’altro congiungendosi insieme come marito e moglie”.

L’ambasciatore è ben informato: “Vintisette si trovavano et più insieme,
il più delle volte”, ma le guardie del governatore hanno catturato solo “questi undeci”. Era il 20 luglio 1578, una domenica pomeriggio. A far intervenire gli sbirri fu, molto probabilmente, la delazione di un tale Giuseppe, atteso dai compagni ma che invece si dette malato. Al momento dell’irruzione, racconta negli interrogatori uno degli arrestati, l’atmosfera a San Giovanni era molto serena: “Io avevo messo l’acqua al foco per pelare certi pollastri, Pinto spazava la casa”.

All’interno della “strana confraternita” vigeva la più completa libertà sessuale e si organizzava l’accoglienza di coppie omosessuali in cerca di un luogo sicuro e protetto; e qui – ma la ricerca di Marcocci non entra nei particolari – il sabato alla confraternita si aggiungeva un gruppo di ebrei. Certo la “bella setta” – come la definiva Montaigne – era consapevole di rischiare una repressione cruenta. Ma San Giovanni a Porta Latina era (è) isolata dal resto della città, protetta dalle mura, appartata, e forse i protagonisti di questa storia – stranieri, poveri e omosessuali – si erano illusi di passare inosservati. Sbagliavano.

Dei documenti del processo restano solo frammenti. Secondo Marcocci “è forte il sospetto di un intervento teso a eliminare carte compromettenti’, effettuato già pochi anni dopo il 1578, al massimo all’inizio del secolo successivo. Le udienze durarono tre settimane, ma le carte superstiti riguardano solo i giorni dal 27 luglio al 3 agosto. Dal loro studio si può affermare che la confraternita riusci a esistere per mesi, torse un anno; che i matrimoni ne costituivano il fulcro, la ragione, e lo si capisce, scrive lo storico, dalle risposte degli arrestati, “evasive e riduttive pertino sotto tortura”. Le nozze si svolgevano sempre in chiesa e sempre di domenica, con uno dei due uomini vestito da donna. E a questo rito, che ripercorreva passo per passo la
liturgia ufficiale, che si deve l’elaborazione – riportata da Montaigne e approvata dal popolo romano – di una dottrina basata sulla capacità del sa-
cramento, in sé, di rendere legittima l’unione di persone dello stesso sesso. Scrive infatti Montaigne: “Dicevano le battute dei romani che, dal momento
che l’unione fra maschio e femmina è resa legittima soltanto dalla circostanza del matrimonio, a quei sottili personaggi era parso che l’altro atto sarebbe divenuto anch’esso legittimo, perché autorizzato dalle cerimonie e
dai riti della Chiesa”.
Per Marcocci questo è “il cuore della storia”, perché “non si trattò di un’imitazione, di una parodia, ma di una appropriazione, come tale e di per sé assolutamente eversiva”.

DA LEGGERE:
Tommaso Giartosio, La O di Roma, Roma-Bari, Laterza, 2012
Giuseppe Marcocci, Matrimoni omosessuali nella Roma del tardo Cinquecento. Su un passo del Journal di Montaigne, in “Quaderni storici”, a, XIV, n. 1 (133), aprile 2010, Pp 107-137.
M. de Montaigne, Viaggio in Italia, prefazione di C. Piovene, Bari, Laterza,
1972.

[La foto di Rabax63 è tratta da Wikipedia]

 

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