Ostia non esiste

Il sequel di Suburra – intitolato Suburra Eterna – non piace ad alcuni cittadini di Ostia (le riprese al Lido iniziano a fine febbraio), perché “sporcherebbe” l’immagine del quartiere marittimo della Capitale, dipingendolo come un luogo dominato dalla criminalità organizzata. 

Quel quartiere è stato anche il mio per quasi 30 anni, dal 1969 al 1997. Ci ho vissuto, ci ho lavorato come cronista, è stato anche il luogo dove ho fatto politica. E ricordo bene il fastidio, per certi versi comprensibile, di certi ostiensi, timorosi di essere dipinti in modo negativo, al punto, però, da tentare di rimuovere la realtà. 

È chiaro che non fa piacere a nessuno essere definito come “il Bronx” (e immagino che gli abitanti dello stesso Bronx non siano contenti, che il loro quartiere venga usato come pietra di paragone di nefandezze). Ma la negazione della cronaca e dei fatti storici non aiuta, soprattutto non aiuta Ostia.

Questa pratica di rimozione è cominciata un bel po’ di tempo fa. Almeno nel 1975, quando all’Idroscalo (cioè la periferia di Ostia) fu ammazzato Pier Paolo Pasolini, in circostanze ancora oggi oscure. Il fatto che lo scrittore friulano fosse finito ammazzato in un quartiere a cui non apparteneva provocò fastidio, perché di lì in avanti il nome di Ostia si sarebbe legato alla morte violenta di PPP, fatto poco edificante. Una soluzione, però, c’era: in fondo l’omicidio avvenne in quella parte del quartiere che non è stata mai davvero considerata come Ostia, la ridente località balneare, ma come una fastidiosa appendice, popolata di ex baraccati, dove anche la polizia un tempo (fino ai tardi anni Settanta almeno) aveva timore a entrare. 

Poi è arrivato “Amore Tossico”, il film realizzato tra il 1982 e il 1983 di Claudio Caligari (che ho visto girare, dato che ero già grandicello, soprattutto attorno alla stazione di Ostia Lido). Una pellicola che aveva per protagonisti veri “tossici”, locali, come Cesare Ferretti, in anni in cui di eroina morivano in tanti (Cesare no: morì di Aids, qualche anno dopo). Ma l’ambientazione ostiense non piacque a certi ostiensi: ovviamente Ostia non era così, non si poteva portarla a emblema di un dramma nazionale.

Poi ci fu la vicenda delle tangenti, che a Ostia scoppiò poco prima di quella di Mani Pulite, in una sorta di anticipazione di una tendenza nazionale. Ma anche con Tangentostia vinse la negazione: Ostia era vittima di un sistema che in realtà risiedeva a Roma (è la storia del noto mantra deresponsabilizzante di alcuni esponenti politici meridionali, di destra e sinistra, “La vera mafia sta a Roma”: come se la presenza della criminalità organizzata al Sud fosse un incidente, praticamente).
La circoscrizione fu sciolta, arrivò Marco Pannella a fare il presidente, nell’entroterra gli abusivi fecero la guerra, letteralmente, contro le ruspe, ma erano dettagli. E comunque non era Ostia, il luogo dove si consumava la guerriglia, ma una zona di periferia, lontana, verso Roma. Un altro mondo.

L’estraneità e il fastidio per Pasolini e la sua morte disgraziata tornarono all’epoca in cui si inaugurò il monumento realizzato da Pietro Consagra, a metà anni Novanta. Anche in quell’occasione, ci fu chi protestò, perché il nome di Ostia veniva legato a quello di un personaggio eccentrico, critico, omosessuale, pedofilo.  Il monumento era stato collocato ahimé in centro, a piazza Anco Marzio, storicamente il “salotto buono” ostiense, non all’Idroscalo, lontano dagli occhi e dal cuore.

In quegli anni, c’era stato già però un altro moto di malumore di certi ostiensi, di solito commercianti e benestanti, per il modo in cui la stampa trattava la vicenda dei “naziskin” (che non erano veri skinhead nazisti, quelli che in gergo si chiamano “bonehead”, ma soprattutto giovani coatti con simpatie di estrema destra, coi capelli tagliati a zero e il bomber). Il problema non era tanto quello delle numerose aggressioni ai danni soprattutto di immigrati, no: era il fatto che si rovinasse il buon nome di Ostia, perché Ostia “non è così”. Ricordo in particolare la lettera aperta di una liceale, figlia dell’Ostia bene (oggi fa la giornalista Rai, se non erro), a cui fu dato ampio risalto: sosteneva, in pratica, che la colpa era dei media e di che aveva gettato un marchio infamante sul quartiere. 

E ci fu anche, sempre negli anni Novanta, ma un po’ più tardi, il caso della morte di un bimbo in un complesso di case occupate. Una storia raccapricciante: il bimbo morto al culmine di un abuso sessuale da parte di un uomo anziano, se non ricordo male, o in là con gli anni. Entrambi, vittima e carnefice, erano italiani, baraccati e disgraziati, ma italiani. Ma vivevano appunto nella non-Ostia, in quel complesso di case occupate, in una zona periferica. Accostare Ostia a quella vicenda era ovviamente una croce, per gli ostiensi. 

Poi, negli anni 2010, arriva l’inchiesta Mafia Capitale. Il Municipio viene sciolto per infiltrazioni da parte della criminalità organizzata, il presidente arrestato e condannato per corruzione. Un’indagine sulla gestione del porto di Ostia (il fiore all’occhiello locale) porta allo scoperto un giro di malaffare. Un gruppo di criminali e corrotti si accorda per entrare nella gestione degli stabilimenti balneari, che fruttano un fatturato altissimo. C’è una giornalista costretta a girare con la scorta perché è stata testimone di un crimine e ha denunciato delle persone, etc. Ma quegli ostiensi lì, che si rifiutano di vedere la realtà, riprendono la solita solfa: il problema è Roma, andava commissariato il Campidoglio, è un complotto, così si rovina la nostra immagine e via piagnucolando. 

Adesso, però il problema è Suburra, cioè una serie (che a me non è piaciuta, nella sua banalità e spettacolarizzazione della violenza che fa il verso a “Gomorra”) che in fondo ha raccontato quello è che è successo, a Ostia e a Roma. 

Ostia non è così, come ho già detto: ma il problema è che è anche così. E anche altro. E chiudere gli occhi non fa bene a nessuno. Gli ostiensi che si indignano pretendono che Ostia non esiste, quando si tratta di vicende come queste: il quartiere è solo una parte di Roma, grande malata. Quando invece c’è da raccontare rosa e fiori, allora siamo a Ostia. Troppo facile, no?

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