L’invenzione del romanesco

All’inizio era il latino, come d’altronde in tutte quelle zone dell’impero romano d’occidente in cui nacquero, nel corso del medioevo, le cosiddette “lingue romanze”, quali il francese, lo spagnolo, il portoghese.

In questo, la lingua parlata a Roma non si discosta certo dal percorso linguistico fatto nel resto della penisola italiana e dell’Europa occidentale.

Eppure, da un certo punto della storia in poi, soprattutto a partire dal Rinascimento, le vicende del romanesco seguono delle strade piuttosto originali, che ne fanno una sorta di unicum nel panorama linguistico, non paragonabile a quanto avvenuto per la maggior parte delle altre lingue e dialetti di origine neolatina.

Il romanesco nel Medioevo

Nei secoli medievali la lingua parlata dal popolo romano è decisamente molto diversa da ciò che oggi noi conosciamo come “romanesco”. In quell’epoca, infatti, il “volgare” di Roma ha caratteristiche paragonabili semmai all’odierno dialetto napoletano.

Come per l’uso delle cosiddette “metavocali” – “puopolo”, “castiello” – o a quello dell’articolo “lo” al posto di “il” – “lo puonte” anziché “il ponte” – o ancora a quello della lettera “i” in alcuni parole che iniziano con “g” – “ionze” anziché “giunse”, oppure “iace” anziché “giace” – solo per fare alcuni esempi.

In pratica, a Roma si parlava una lingua che aveva regole fonetiche assimilabili anche a quelle dell’attuale ciociaro, oltre che ai dialetti campani, e che un romano contemporaneo faticherebbe a capire, poiché pochissimo somiglianti all’attuale parlata romanesca.

Ma se in Campania, in Ciociaria e nelle altre zone del Lazio, il dialetto proseguì a evolvere in quella direzione, a Roma, tra le fine del Trecento e il Quattrocento, la lingua cambiò bruscamente il suo corso e prese tutt’altra strada. Perché? E perché in modo così improvviso?

La “rivoluzione” del Rinascimento

Nel periodo che va dalla fine del quattordicesimo fino a tutto il quindicesimo secolo, la trasformazione del romanesco è impetuosa. Nella parlata romana, infatti, entrano di prepotenza molte parole ed espressioni toscane, cosa che porterà il romanesco a somigliare sempre di più all’italiano rispetto ad altri dialetti, soprattutto quando il toscano diventerà la lingua dell’intera penisola.

Questo è dovuto, innanzi tutto all’arrivo a Roma di molte e importanti personalità toscane alla corte del papa: banchieri, mercanti, artisti, soprattutto fiorentini. Proprio per questo la rivoluzione linguistica inizierà prima fra le classi più elevate e solo successivamente – fra la fine del quattrocento e l’inizio del cinquecento – si diffonderà fra il popolo.

C’è però anche un’altra ragione. Con la fine del Trecento, il papa era definitivamente rientrato a Roma da Avignone e, col ritorno del papa, erano tornate anche le frotte di pellegrini che, non solo durante gli anni santi, si recavano a visitare i luoghi sacri della città.

Questo grande afflusso di turisti, impose ai romani d’inventare una nuova lingua, una sorta di antesignano dell’esperanto. Un dialetto, cioè, capace di essere compreso da tutti, che includesse termini provenienti da altre regioni e che aiutasse il dialogo con i forestieri.

Anche per questo il romanesco si è trasformato in un idioma molto più simile all’italiano rispetto agli altri dialetti del Lazio. In generale, una frase in romanesco è sempre comprensibile per un parlante italiano, diversamente da quanto accade per i dialetti della Ciociaria, della Sabina, o della Tuscia, che richiedono una certa pratica per essere capiti da chi è nato altrove.

La fine dello Stato Pontificio

Fino a tutto l’Ottocento, il dialetto romanesco è parlato esclusivamente a Roma, mentre nel resto del Lazio e dello Stato Pontificio, si parlano dialetti diversissimi per regole e accento. Anche questa è una singolarità della città di Roma.

In tutto il resto d’Italia, infatti, così come anche nelle altre regioni di lingua neolatina, non esistono altri esempi di differenze così marcate fra la lingua parlata nel capoluogo e quella parlata nell’hinterland. Le ragioni sono dovute, come detto prima, alla vocazione turistica della città, non condivisa dagli altri paesi dei dintorni.

Con il Novecento, inizia una crescita impetuosa della città, divenuta Capitale d’Italia, e di conseguenza, degli spostamenti da e verso di essa. Perciò alcuni usi propri del lessico e dell’accento romani cominciano a diffondersi nelle aree della provincia e del resto del Lazio, grazie anche a fenomeni crescenti di pendolarismo lavorativo.

Il cinema e la tv

L’ultima importante trasformazione del romanesco, si è avuta infine con lo sviluppo dei grandi mezzi di comunicazione di massa. Il successo nazionale di attori romani come Ettore Petrolini, Aldo Fabrizi, Alberto Sordi, Gigi Proietti, o come il Tomas Milian doppiato da Ferruccio Amendola, hanno portato il romanesco a diffondersi nella penisola.

Anche il grande cinema neorealista ha dato il suo importante contributo, con opere come Roma città aperta, o come Ladri di biciclette, ambientate a Roma e parlate in romano, da attori locali e, spesso, non professionisti.

Ma questo passaggio, se da una parte ha portato espressioni fortemente tipiche di Roma – quali, ad esempio, daje, sticazzi, mortacci tua, mecojoni – a diventare patrimonio comune del lessico italiano, dall’altra ha imposto al dialetto romano – che, attraverso i media, si presentava a una platea non più locale ma nazionale – una fase di ulteriore “italianizzazione”, simile a quella avvenuta secoli addietro per comunicare coi pellegrini.

È un passaggio che fa storcere un po’ il naso ad alcuni “puristi” del nostro vernacolo, che tendono a non considerare più l’idioma parlato oggi in città, come un vero e proprio “romanesco”. Questi puristi, però, forse dimenticano – o forse non sanno – che il nostro dialetto è una parlata “inventata” proprio per essere capita da ogni italiano. Dunque una parlata che non è mai stata “pura”.

Se oggi a Roma non si parla un simil-napoletano, è proprio perché da esse puristi, a noi romani, nun ce n’è mai fregato gnente, basta che ce se capimo facile un po’ co’ tutti, pure si so’ forestieri. Questo da sempre e non da oggi.

Dunque, il romanesco puro è pura invenzione. È un falso storico. Perché il romanesco è romanesco, proprio perché non è mai stato un vero dialetto, quanto piuttosto una parlata adattabile, un cocktail, una mescolanza, che ha sempre voluto farsi capire in modo universale. Sempre pronto a cambiare e ad adeguarsi ai tempi, fregandosene d’imbastardirsi o d’italianizzarsi un po’.

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