Et in Arcadia ego

Parlare di Accademia dell’Arcadia, oggi, suscita poche emozioni. Nonostante l’Accademia sia ancora attiva e operante, il ricordo di quello che fu un importantissimo movimento intellettuale, che coinvolse le migliori menti di Roma e della penisola, è ormai scolorito del tutto.

Né in molti saprebbero dire cosa sia quel “Bosco Parrasio” che dell’Accademia fu a lungo la sede e che, ancora oggi, fa sfoggio di sé sulle pendici del Gianicolo, a metà circa di via Garibaldi, laddove gli “Arcadi” avevano acquistato un terreno boschivo, per trasformarlo nella bucolica scenografia per i loro incontri.

L’Accademia era nata il 5 di ottobre del 1690. A fondarla erano stati Giovanni Vincenzo Gravina e Giovanni Mario Crescimbeni, insieme a un gruppo di amici intellettuali. L’idea del nome Arcadia, venne durante una scampagnata nella zona di Castel Sant’Angelo. Il verde dei pascoli di quell’area di Roma – che non a caso ancora oggi si chiama “Prati” – riportò alla mente la leggenda dei pastori-poeti della regione greca dell’Arcadia.

D’altronde le leggende e il nome dell’Arcadia erano bene presenti nel bagaglio culturale degli artisti e degli intellettuali del seicento. Nel 1620 il Guercino aveva dipinto una famosa opera denominata “Et in Arcadia ego”, in cui l’aspetto bucolico era anche legato a un misterioso presagio di morte. Lo stesso aveva poi fatto il pittore francese Nicolas Poussin.

L’Arcadia come un “gioco di ruolo”

Il quadro “Et in Arcadia ego” del Guercino

Gli accademici romani, dunque, pensarono di rifarsi a quell’esempio mitico dei poeti arcadici – che vivevano immersi nella natura – e scelsero di chiamare se stessi “pastori”. Un termine ambivalente, che avrebbe ben presto generato una altrettanto ambigua e ambivalente interpretazione del proprio ruolo, portando a un successivo scontro fra due visioni contrapposte.

Ma inizialmente l’armonia pareva regnare sovrana. Tutti gli Arcadi erano convinti che occorresse superare il “cattivo gusto” del barocco e tornare a una semplicità classica, considerata più naturale. Per ottenere questo, avevano organizzato l’Accademia come fosse un vero e proprio piccolo Stato.

L’Accademia era una democrazia, in cui sovrana era l’assemblea dei membri, che aveva l’obbligo di riunirsi almeno due volte in inverno e una in estate. A convocarla e a presiederla era preposto un Custode, eletto, con scrutinio segreto, ogni quattro anni, durante la celebrazione dei Giochi Olimpici.

Il Custode doveva anche nominare, tra tutti gli Arcadi che risiedevano a Roma, un collegio di dodici Vicecustodi che ogni anno dovevano essere sostituiti per la metà. Sempre di nomina del custode c’erano anche due Sottocustodi con funzioni di cancellieri e un Vicario o Protocustode.

Tutti avevano anche l’obbligo di scegliere un nome bucolico, che diventava poi quello con cui venivano conosciuti all’interno dell’Accademia. Ecco perciò un fiorire di nomi d’arte, da loro ritenuti elegantissimi e che oggi apparirebbero un po’ ridicoli, come Agesandro Tresporide, oppure Mireo Roseatico, o ancora Filandro Gerometeo.

Lo scontro fra “dandy” e “artisti impegnati”

Pietro Metastasio, uno dei più autorevoli membri dell’Accademia dell’Arcadia

È abbastanza chiaro che, messa in questi termini, l’Accademia fosse ben presto diventata una sorta di divertente gioco per aristocratici spensierati, con qualche velleità artistica. Era questa la posizione di Giovanni Mario Crescimbeni che, attraverso la promozione di una poesia classicheggiante, semplice e aggraziata, portava avanti l’Arcadia come un luogo mondano.

Giovanni Vincenzo Gravina, invece, aveva tutt’altre intenzioni. A suo avviso l’Arcadia doveva operare in un senso più politico, come rinnovamento del pensiero. Anche il successo che l’Accademia aveva avuto nel resto d’Italia, dov’erano sorte oltre cinquanta filiali, le cosiddette “colonie”, doveva trasformarsi nello strumento per un vero e proprio riscatto culturale nazionale, in senso razionalista. E i “pastori” dovevano perciò assumere un ruolo di guida morale.

Lo scontro divenne sempre più aspro. A prevalere, alla fine, fu la visione “dandy” e mondana di Crescimbeni. Tanto che Gravina operò una vera e propria scissione, fondando nel 1711 l’Accademia de’ Quirini, che però non ottenne il successo della precedente e che, dopo la morte di Gravina, avvenuta nel 1718, fu riassorbita all’interno dell’Arcadia.

La fase di decadenza

Piazza di Sant’Agostino a Roma

Le lotte irriducibili e fratricide fra l’animo “impegnato” e quello “mondano” dell’Arcadia, cominciarono ad avviare una lenta decadenza di quel fortunato ma velleitario tentativo di risveglio culturale romano e italiano, il primo che avesse avuto, dopo secoli, una portata nazionale, con un successo e un’uniformità che si estendeva su tutto il territorio della penisola.

Già nella seconda metà del Settecento per l’Arcadia cominciò un forte declino, che divenne quasi totale nell’Ottocento. Nonostante ciò l’Accademia dell’Arcadia, formalmente, esiste ancora oggi. La sede attuale è sempre a Roma, ma non più al Bosco Parrasio del Gianicolo, bensì presso la Biblioteca Angelica, in piazza di Sant’Agostino, a due passi da Piazza Navona.

Dal 1925, è stata trasformata in un istituto di studi storici e letterari. Per questo, oltre all’antico nome di Accademia dell’Arcadia, oggi è anche nota con il titolo di Accademia Letteraria Italiana, nome che dimostra come ormai essa sia solo un centro di pura ricerca intellettuale, senza più il suo segno distintivo di elegante luogo di svago mondano, così come senza velleità d’impegno sociale.

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