Motivi per amare e odiare “Siccità”

Quello di Paolo Virzì è prima di tutto un film su Roma, città perennemente in decadenza. Lo si chiarisce fin dalle prime scene, quando su una vela compare la scritta #RomaCeLaFarà, uno di quegli slogan/hashtag mielosamente veltroniani che il centrosinistra ci propina da anni. E si capisce subito che la Capitale la sfangherà: è la sua specialità da quasi due millenni. Anche se le sue crisi possono durare decenni, o secoli, insomma ben oltre i tempi di vita delle persone, come ha spiegato bene Nicola Lagioia in “La città dei vivi” (salvo poi tornarci, a Roma, dopo essere fuggito a Torino per qualche tempo).

E dunque, non è strano che a più d’uno “Siccità” ricordi per alcuni versi “La grande bellezza”, perché in fondo il tema era sempre quello, la decadenza di Roma (e la bellezza devastante della decadenza). Nel film di Paolo Sorrentino c’è sicuramente più crudeltà, o forse semplicemente crudità, nel senso che lì i “vecchi” sopravvivono ai figli, condannati praticamente tutti a malattie incurabili oppure alla follia (Roma è la città del potere, e il potere è dei vecchi, almeno da noi). E ovviamente, l’estetica di Virzì non è quella del regista napoletano.

Sorrentino e Fellini

Nel gioco dei rimandi, “Siccità” c’entra pure con “Roma” di Federico Fellini, non per l’estetica (quella riguarda soprattutto il già menzionato Sorrentino) ma per l’antropologia. Fu Fellini infatti a dire che il suo film sulla Città Eterna parlava del “romano, l’antico suddito papalino che vive in una città improbabile cresciutagli attorno a tradimento, uno che non si fida di dire la verità perché ‘non si sa mai’, pauroso per timori atavici, un uomo dalle prospettive molto ravvicinate, attorniato da storia e monumenti ma rapportato soltanto alle consuetudini quotidiane e alla tribù familiare: mamma, sorelle, nonni, nipoti, zia”. Mentre il film di Fellini è una racconto volutamente slegato, quella di Virzì (scritta da lui, Francesco Piccolo, Francesca Archibugi, Paolo Giordano) è invece una storia compatta, con personaggi legati tra loro, anche se per relazioni talvolta casuali o esili, in un orizzonte temporale ristretto (pochi giorni).

Poi ci sono i personaggi, e gli attori. Virzì schiera un certo numero di professionisti della commedia, cinematografica e tv. E se Monica Bellucci fa Monica Bellucci, dall’alto della sua terrazza romana in cui riceve anche ministri (anzi, ministre), gli altri recitano più o meno i loro personaggi abituali. E qui forse uno potrebbe trovare il punto debole del film, cioè quello della commedia romanocentrica (ma ricordo sempre che il tanto esaltato cinema francese sembra svolgersi praticamente solo a Parigi, o quasi) e dei suoi personaggi.

C’è una stratificazione sociale, tra i personaggi. Ci sono i borghesi ( i professionisti, coi soldi), che vivono al riparo di qualsiasi difficoltà, e anche della legge, o che fanno la legge loro stessi. C’è il ceto intellettuale decaduto, c’è il lumpenproletariat (condannato a usare la violenza e condannato comunque alla sconfitta). Poi c’è una stratificazione emotiva: ci sono i fragili, ci sono i sensibili (destinati alla sconfitta pure loro), ci sono i “terminator”.

 

Il futuro dell’acqua

Quello che fa veramente impressione, nel film, è il Tevere. O meglio, la sua assenza, anche se poi dalle fontane romane – guardate a vista dalle forze dell’ordine – continua a sgorgare acqua. Ma i romani sembrano essersi abituati rapidamente anche al prosciugamento del fiume lungo il quale è nata la loro città (ovviamente parliamo di un espediente letterario, anzi, cinematografico: se davvero il Tevere non scorresse più, la situazione di Roma e dell’Italia, dal punto di vista climatico, sarebbe totalmente disperata). 

Ci vuole però un non romano (nel senso di uno che non vive a Roma), un professore veneto, per spiegare che in realtà nel nostro futuro, senza un contrasto vero alla crisi climatica, non ci sarà poca acqua, ma ce ne sarà tantissima: quella dei poli, che con lo scioglimento dei ghiacci finirà per sommergere ampie porzioni di terra. E mentre uno magari pensa a uno scenario da Waterworld, il kolossal di Kevin Costner, l’esito più probabile è che Roma finirà per sfangarla pure così, abbarbicata sulle sue numerose colline.

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