Cent’anni dopo

Correva l’anno 1922 quando, un po’ a sorpresa, il cavaliere Benito Mussolini veniva nominato dal Re Vittorio Emanuele III – dopo lo svolgimento della cosiddetta “marcia su Roma” – presidente del consiglio dei ministri. Il futuro Duce avrebbe mantenuto quella carica fino all’estate del 1943, dando così inizio a un famigerato “ventennio”. 

A cento anni esatti di distanza da quell’evento, il nostro paese è oggi finalmente vaccinato dal rischio di una nuova deriva totalitaria? Oppure il virus del totalitarismo può ancora “bucare” i vaccini morali, somministrati agli italiani durante gli ultimi decenni? Rispondo senza giri di parole: il rischio totalitario c’è ancora e forse mai come oggi è stato tanto elevato. 

C’è però da aggiungere che immaginare un ritorno del fascismo così come lo abbiamo conosciuto attraverso libri di storia e documentari tv, con un’Italia attraversata da squadracce armate di manganello e olio di ricino, con un paese preso in ostaggio da folle di fanatici col fez e la camicia nera, oppure da più moderni naziskin dai capelli rasati e dalle enormi svastiche tatuate sul braccio, è inverosimile. Non è certo questo il rischio che oggi si profila

Anzi, se il pericolo di una nuova deriva totalitaria c’è ed è molto concreto, ciò è dovuto anche a questa immagine macchiettistica e fuorviante con cui per decenni si è parlato di fascismo e più in genere di totalitarismo. Un fascismo raccontato poco nella sua reale e articolata vicenda storica e presentato solo come l’ideologia fanatica di un manipolo di violenti e rozzi ragazzoni esagitati, usciti dal trauma della Grande Guerra con l’unico obiettivo di menare le mani. 

Si è finito così per dimenticare che anche raffinatissimi intellettuali – dunque uomini niente affatto rozzi e niente affatto violenti – oltre a scienziati premi Nobel, furono ferventi ammiratori del regime mussoliniano. Mi riferisco a personaggi del calibro di Luigi Pirandello, Ezra Pound, Guglielmo Marconi, Giovanni Gentile. Per non parlare dei più movimentisti, ma pur sempre colti, Filippo Tommaso Marinetti e Gabriele D’Annunzio. O del fatto che lo stesso Mussolini fu uno dei più apprezzati editorialisti della propria epoca. 

L’immagine falsata del fascismo che si è propagandata dal secondo dopoguerra – cioè quella di un movimento che dell’ignoranza e della violenza fisica avrebbe fatto un vanto e un marchio di fabbrica – ha generato purtroppo un antifascismo altrettanto falsato, un antifascismo di maniera, superficiale, che è quello con cui per oltre settant’anni – e anche di recente – si sono arringate le folle, credendo in tal modo di educarle a riconoscere il pericolo fascista, per evitare di ricadere in quell’errore. 

In realtà, questo tipo di antifascismo, così male strutturato, è in grado di arginare un eventuale rigurgito totalitario, tanto quanto la poderosa e costosissima linea Maginot riuscì, ottant’anni fa, a frenare l’attacco dei nazisti contro la Francia: i panzer di Hitler la aggirarono senza bisogno di sparare un colpo, giungendo a conquistare Parigi in poche settimane. 

Quell’insistenza con cui si è messo l’accento solo su quanto accaduto negli ultimi anni del regime – senza soffermarsi sulle modalità con cui il fascismo è nato e ha ottenuto un consenso sempre più vasto nella popolazione italiana ed europea – ha focalizzato l’attenzione su alcune scelte tragiche e scellerate di quel periodo storico, quali le leggi razziali, l’alleanza con la Germania nazista e antisemita, la colonizzazione dell’Etiopia, l’entrata in guerra al fianco di Hitler. 

L’attenzione esclusiva verso quegli aspetti del fascismo ha però provocato, alla lunga, un effetto deleterio e indesiderato: ci ha portati a credere che il segnale per riconoscere un totalitarismo sia la presenza di un’ideologia bellicista, razzista e antisemita e che, dunque, se nell’Italia di oggi non c’è aria di neocolonialismo e nessuna legge discrimina gli ebrei, vuol dire che il rischio totalitario non esiste. 

Purtroppo, non c’è niente di più falso e pericolosamente sbagliato di questa convinzione, nata da false premesse e da una poco attenta lettura di quanto accaduto cent’anni or sono. Il fascismo – per poterlo comprendere davvero e per imparare così a non ripeterne gli errori – va infatti analizzato nel suo complesso, quindi anche nelle sue luci, oltre che nelle sue ombre. 

Per questo il sarcasmo con cui da decenni si prende in giro la frase – divenuta proverbiale – “Mussolini ha fatto anche cose buone”, oppure l’idea del fascismo come “male assoluto”, anziché denotare un reale rifiuto del fascismo – come sembrerebbe a prima vista – è di fatto un modo per non comprenderne le dinamiche e per non riconoscerlo, aiutandolo così a tornare in sella.

Presentare un fascismo tutto ombre, è completamente fuorviante. Il diavolo non è mai così brutto come lo si dipinge e, dunque, nessun regime è mai completamente malvagio. Se non si comprende che una dittatura ha bisogno di rappresentare se stessa come dispensatrice di bene e che quindi – per risultare più credibile – finirà per fare anche cose realmente benefiche, non si saprà mai riconoscere una vera dittatura. 

Tra l’altro, il sogno di ogni dittatore non è certo quello di sterminare i dissidenti. Semmai – visto che in ogni dittatore è spesso presente una forte componente narcisistica – il suo sogno è quello di essere amato da tutti, spontaneamente, dissidenti inclusi. Dunque, per essere amato, ogni dittatore ha la concreta necessità di “fare anche cose buone”, che vengano apprezzate dai cittadini. Mussolini non fece eccezione. 

C’è inoltre da tenere a mente che, per tre lustri circa, il regime fascista non fu per nulla antisemita. Per rendercene conto basti pensare al fatto che – a differenza di quanto poi fu scritto nel Mein Kampf hitleriano – non vi è traccia di antisemitismo nel cosiddetto “Manifesto di Sansepolcro”, ovvero nell’atto costitutivo con cui presentarono il proprio programma politico i Fasci Italiani di Combattimento fondati da Mussolini. 

Non fosse stato così, non sarebbe stato nemmeno possibile che, per tutti gli anni venti e per i primi anni trenta, la più fidata e ascoltata amica e consigliera del Duce fosse proprio un’ebrea: Margherita Sarfatti, scrittrice e critica d’arte di formazione marxista, nonché autrice della prima biografia autorizzata di Benito Mussolini, pubblicata nel 1925 e alla cui stesura collaborò egli stesso. 

Per non parlare – e qui siamo già in una fase più avanzata del regime – del famoso discorso di Bari del 1934, quello con cui Mussolini criticò, ferocemente, l’antisemitismo hitleriano, liquidandolo con sarcasmo: “Noi possiamo guardare con un sovrano disprezzo talune dottrine d’oltralpe, di gente che ignorava la scrittura, in un tempo in cui Roma aveva Cesare, Virgilio ed Augusto!”. 

Tutto ciò, sia chiaro, non impedì la forte virata successiva del regime, con le scelte tragiche e criminose che portarono l’Italia, di lì a poco, a sprofondare nella tragedia della guerra, della discriminazione razziale, dei rastrellamenti, delle deportazioni, dei bombardamenti, tra milioni di morti e una devastante spaccatura del paese. 

Ma se ciò fu possibile e con tanta rapidità, fu, soprattutto, perché nei decenni precedenti – grazie anche all’aiuto delle “cose buone” fatte da Mussolini – nel paese il consenso era divenuto quasi totale, era venuta meno ogni forma di critica, ogni freno allo strapotere mussoliniano, ogni contrappeso. E non solo e non tanto per via della violenza delle squadracce fasciste. Nella gran parte dei casi l’adesione degli italiani al fascismo, infatti, fu spontanea e pacifica. 

Lentamente, un pezzetto alla volta, Mussolini aveva forzato le leggi fino ad allora vigenti, aveva di fatto mandato in soffitta lo Statuto Albertino, aveva concentrato poteri, aveva eliminato ogni forma di opposizione politica e culturale, aveva creato un clima di adulazione, aveva trasformato l’informazione in propaganda, aveva ottenuto rispetto e ammirazione internazionale, costruendo un regime, senza che quasi nessuno se ne rendesse conto. “Ai tempi del fascismo non sapevo di vivere ai tempi del fascismo” avrebbe poi detto Hans Magnus Enzensberger. 

Fu un regime che solo all’inizio, cioè soprattutto prima di andare al potere, aveva avuto bisogno di forme manifeste e smaccate di violenza. Una volta che Mussolini divenne presidente del consiglio, quindi già a partire dal ’22, l’adesione al fascismo di molti italiani cominciò, invece, in misura esponenziale, ad essere automatica ed autentica, in alcuni casi per semplice conformismo, in altri casi per reale ed entusiastica convinzione

È solo tenendo conto di tutto ciò, dunque, che si comprende come i veri segnali di un possibile pericolo totalitario non passino necessariamente per il razzismo, per il bellicismo, per la violenza fisica. Al contrario, essi spesso viaggiano grazie a un sottile gioco psicologico e sociale, con una lenta ma continua forzatura delle norme, con un costante indebolimento dei contrappesi politici, con una crescente demonizzazione degli avversari, presentati come nemici della patria e del bene, con l’adulazione del capo da parte della politica e dell’informazione, con la concentrazione progressiva dei poteri in un’unica persona o in un ristretto gruppo di persone, e con la conseguente crescente accettazione conformista o entusiasta di tutto ciò, da parte di un’ampia maggioranza della popolazione. 

Dunque, non è solo l’uso di squadracce e di carri armati che può far nascere una dittatura. Spesso sono sufficienti piccoli, a prima vista pacifici, però ripetuti, soprusi quotidiani, forzature di poco conto ma continue, atti apparentemente banali, operati congiuntamente, non solo dal leader, ma anche da un grigio e ampio sottobosco di tantissime persone perbene, di gente normale, di uomini e donne che finiscono così per diventare complici e “kapò” di quel regime, di cui a volte ignorano persino l’esistenza. 

Hannah Arendt descrisse meravigliosamente questo meccanismo psicologico nel suo libro “La banalità del male”. Ed è proprio questo male apparentemente innocuo, quotidiano, quello che vedo ritornare in mezzo a noi. Così come vedo tornare, spesso nell’indifferenza o addirittura nel plauso generale, una crescente concentrazione di poteri in poche e troppo riverite mani. 

Certo, anche oggi, proprio come cento anni fa, insieme ad alcuni più o meno evidenti soprusi, si stanno facendo anche tantissime “cose buone”. Meno buono, però, è il possibile sviluppo che tutto ciò potrebbe avere, se ne ignoriamo – per superficialità o per quieto vivere – i meccanismi e le tante, troppe, controindicazioni possibili, convinti come siamo, a torto, che nessuna dittatura potrà più ritornare nell’opulento, tollerante e pacifico mondo contemporaneo.

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