Mastro Titta passa ponte

È forse il boia più famoso della storia, talmente famoso che ormai il suo nome è diventato familiare e in fondo simpatico ai romani, nonostante il suo truce mestiere. Il merito, sicuramente, va dato anche ad Aldo Fabrizi, che ne vestì i panni a teatro, o a Paolo Stoppa, che lo interpretò in un film.

Stiamo parlando di Giovanni Battista Bugatti, detto Mastro Titta, il più noto e longevo esecutore di condanne a morte dello Stato Pontificio, un boia rimasto in attività per quasi settant’anni, dal 1796 al 1864. Settant’anni durante i quali sono attestate ben 516 esecuzioni, da lui annotate nell’ordinato taccuino col quale teneva memoria del proprio lavoro.

Qualcuno dice che due di queste 516 esecuzioni, siano però state messe in atto non da lui, bensì dai suoi collaboratori e che dunque il conto vada ridotto a 514. In ogni caso, un numero enorme. Le teste fatte ruzzolare dal Bugatti sono decisamente molte di più di quella “centesima capoccia” che Adriano Celentano, nel film “Rugantino”, gli augurava di tagliare, prima o poi, per poter vincere “er premio pontificio”.

La vita di Mastro Titta

A differenza di quanto si possa pensare, Mastro Titta non era romano. Nacque a Senigallia nel 1779, anche se si trasferì nella Città Eterna fin da ragazzo, in una casa di epoca medievale ancora oggi esistente a Borgo, in vicolo del Campanile, oggi nota come “la casa del boia”.

Già a diciassette anni cominciò a svolgere il suo poco benvisto lavoro. Talmente poco benvisto che il papa gli ordinò espressamente, per precauzione, di non recarsi mai in centro città, sull’altra sponda del fiume, per evitare attentati e ritorsioni.

Boia nun passa ponte” è un’espressione che ancora oggi qualche romano continua ad usare, nata proprio a causa di questo divieto papale e che sta a indicare che i “traditori” debbano starsene lontani, al loro posto, fra i loro “simili”, perché altrove non sono benvoluti.

Il divieto di passare ponte aveva però un’eccezione, in occasione delle condanne a morte. In quel caso, dopo avere indossato il vestito con cappuccio rosso che costituiva il suo abito da lavoro – ancora oggi è custodito nel museo criminologico di Roma – Mastro Titta attraversava il Tevere.

Le esecuzioni capitali, infatti, avevano luogo sempre sulla sponda sinistra del fiume, a volte in piazza del Popolo, altre volte a Campo de’ Fiori, o in piazza del Velabro.
Da qui nasce un altro famoso modo di dire, che molti vecchi romani conoscono: “Mastro Titta passa ponte”, che è una sorta di annuncio di morte, sta a significare che oggi c’è una brutta aria e qualcuno ci lascerà le penne.

Si narra che Mastro Titta fosse sempre molto gentile coi condannati, ai quali offriva del vino o del tabacco, per stordirli e rendergli meno angosciosi gli ultimi attimi di vita. Poi, rientrato a Borgo dopo il lavoro, Giovanni Battista Bugatti, nei lunghi mesi di pausa che intercorrevano fra un’esecuzione e l’altra, sbarcava il lunario vendendo e riparando ombrelli.

L’ultima condanna a morte della sua lunghissima carriera, viene eseguita da Mastro Titta il 17 agosto del 1864, quando il Bugatti ha già superato ampiamente gli ottant’anni. Da quel giorno se ne andò in pensione, con un vitalizio mensile di 30 scudi, concessogli da papa Pio IX. Morirà cinque anni dopo, nel 1869, a novant’anni esatti.

Le leggende

Le vicende delle esecuzioni di Mastro Titta vennero narrati già quando egli era in vita e in attività. Charles Dickens e Lord Byron, ebbero entrambi modo di assistere a delle condanne a morte effettuate da Mastro Titta, di cui ci hanno poi lasciato la cronaca.

Così come ha fatto Giuseppe Gioacchino Belli, contemporaneo del boia, che cita Mastro Titta in vari componimenti e che ci ha anche tramandato, nel suo sonetto “Er ricordo”, quell’usanza romana di dare uno schiaffo ai bambini subito dopo un’esecuzione, in segno di monito. Un’usanza poi resa celebre dal film “Il marchese del Grillo”.

È subito dopo la morte del Bugatti, però, che cominciano a fiorire numerose leggende sul suo conto. Leggende che cominciano a mescolarsi coi reali fatti storici, in un mix nel quale finzione e realtà divengono indistinguibili. Alla fine dell’Ottocento viene anche pubblicata una falsa autobiografia di Mastro Titta – spacciata a lungo per vera – ricca di aneddoti e racconti, poi rivelatisi frutto di fantasia.

Il mondo dello spettacolo ha completato l’opera, rendendo Mastro Titta protagonista di commedie musicali e film. Da “Rugantino” – sia nella versione teatrale di Garinei e Giovanni, sia in quella cinematografica di Pasquale Festa Campanile – a “Nell’anno del Signore” di Luigi Magni.

Ma la leggenda più famosa è quella che vuole che il fantasma di Mastro Titta passeggi alle prime luci dell’alba, avvolto nel suo mantello col cappuccio rosso, nei vari luoghi che frequentava per svolgere il suo macabro lavoro: presso la chiesa di Santa Maria in Cosmedin, in piazza del Popolo, o sul Ponte Sant’Angelo.
Si dice anche che, talvolta, offra una presa di tabacco a chi incontra, così come era solito fare con i condannati.

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