Se gli alloggi pubblici spariscono dal centro di Roma

I sindacati degli inquilini e uno studio di Osservatorio Casa Roma denunciano il rischio che le famiglie a basso reddito vengano espulse dal centro della Capitale. E il rischio è che anche entrarci per lavorare diventi un problema. Un fenomeno che ha dimensioni internazionali e ci interroga su che tipo di città vogliamo.

Che città vogliamo? È l’interrogativo, forse l’allarme, lanciato dai sindacati degli inquilini romani giovedì, con una conferenza stampa sulla politica di dismissioni del patrimonio abitativo pubblico da parte della Regione Lazio e di Roma Capitale. Emiliano Guarneri (SUNIA), Paolo Ricucci (SICET), Micol Pietrini (UNIAT) e Massimo Pasquini (Unione Inquilini) esprimono un giudizio positivo sul Piano casa della giunta Gualtieri, che, osserva Ricucci, “per la prima volta mette soldi per ampliare lo stock abitativo senza consumare suolo”, ma ne evidenziano la contraddizione di fondo: il Comune con una mano si impegna ad acquistare case, con l’altra continua a realizzare un piano di dismissioni che, sommato ai due della Regione Lazio, alla fine significherà la cancellazione di 18.000 alloggi pubblici e la scomparsa dell’edilizia popolare da un’area di Roma dalla superficie pari a Milano.

Nel corso della conferenza stampa Enrico Puccini, di Osservatorio Casa Roma, ha presentato uno studio sulle dismissioni ERP appena pubblicato sul sito: due mappe in cui vengono riassunti numeri, aree interessate e implicazioni dei tre piani di dismissione in corso, due, Lupi (2021) e Pregio (2023), dell’ATER, la società di gestione del patrimonio immobiliare della Regione Lazio, rispettivamente 7.428 e 3.544 alloggi, e quello varato nel 2007-2008 da Roma Capitale, altri 7.410 appartamenti, il 30% dei 24.000 in possesso del Comune, la soglia massima prevista dalla legge regionale del 2007.
I piani, spiega Puccini, hanno origine in una fase in cui sembrava che in Italia la questione abitativa fosse stata risolta, quando il numero degli alloggi aveva superato quello dei nuclei familiari. Ma col passare del tempo le cose sono cambiate e oggi la riduzione del 30% dello stock di case pubbliche significherà presumibilmente che anche le nuove assegnazioni verranno tagliate in pari misura: ma soprattutto, che tra un po’ nel centro di Roma non rimarrà una sola casa pubblica.

Questa prospettiva emerge dalla seconda mappa di Osservatorio Casa, che mostra le aree con più appartamenti ERP (sopra le 300 unità) soggette a vendita. “Non disponiamo di dati precisi sugli appartamenti già venduti. Una stima plausibile è che siano circa 4.000”, commenta Puccini. “Ciò che invece è certo è che completate le dismissioni all’interno dell’anello ferroviario di Roma non ci saranno più case popolari. Spariranno anche i 300 alloggi pubblici di Testaccio, il primo quartiere di case popolari edificato in Italia nel 1907”. E complessivamente il patrimonio pubblico passerà da 72.000 a 50.000 alloggi.

Per Ricucci del SICET è necessario “darsi una regolata”. “Il Comune deve farci capire dove vuole andare e bisogna stabilire un tempo congruo per dare la possibilità agli inquilini di decidere se acquistare, ma, una volta passato il termine, se l’acquisto non va in porto l’alloggio deve rientrare a tutti gli effetti nel patrimonio ERP, eventualmente con l’inquilino dentro, se ha diritto”.

Guarneri (SUNIA) osserva che denunciare l’assenza di politiche abitative forse è stato un errore. “In realtà, infatti, come emerge dallo studio dell’Osservatorio, una pianificazione c’è stata ed è consistita nello smantellamento di qualunque forma di controllo pubblico sulle forme dell’abitare”. Dall’equo canone si è passati ai patti in deroga fino ad affidarsi totalmente al mercato, anche cancellando l’obbligo per enti previdenziali, assicurazioni ecc. di detenere una parte del loro patrimonio in forma di immobili a uso residenziale e costringendoli a sbarazzarsene. “Una scelta che potrebbe avere un senso se restasse una forma di welfare pubblico. Ma in realtà sta succedendo il contrario e oggi i numeri dell’emergenza casa non sono più allarmanti: sono ingestibili”.

“Nel momento in cui gli alloggi pubblici spariscono dall’interno dell’anello ferroviario, chi ha meno viene spinto all’esterno e non c’è più l’idea di una città aperta, anzi si creano ghetti con alti tassi di criminalità” aggiunge Micol Pietrini (UNIAT), concludendo che “Le dismissioni non possono andare avanti con questi ritmi”.

Massimo Pasquini (Unione Inquilini) osserva che “se a Roma abbiamo 14.000 famiglie in graduatoria e contemporaneamente ci mettiamo a vendere gli alloggi pubblici, è il frutto della miopia politica di non aver saputo pianificare ciò che non può essere appaltato ai privati”. Perché se il governatore del Lazio Francesco Rocca a giugno denunciava che 800 famiglie con redditi elevati vivono in alloggi ERP pagando canoni molto bassi, talora senza averne diritto – a ricordarlo è stato Francesco Aymonino, vicepresidente dell’Ordine degli architetti di Roma, presente alla conferenza stampa – Pasquini spiega che “ciò avviene anche perché si è imposto ad ATER il pareggio di bilancio”.

È un punto che merita un approfondimento. “Intanto non sono 800 casi, ma molti di più, probabilmente 4.000 o 5.000” precisa Pasquini, “Però non è gente che si nasconde. È che ATER ha l’obbligo di tenere i bilanci in pareggio e lo fa anche affittando i suoi alloggi a famiglie con redditi elevati che pagano anche 600 euro al mese, cioè canoni molto bassi in termini di mercato, ma molto alti rispetto alla media di 100 euro dei canoni ATER”. E poi ci sono i canoni sanzionatori, addebitati a chi occupa abusivamente un appartamento, che nessuno paga, ma l’ente può mettere a bilancio per far quadrare i conti.

Per questo le associazioni degli inquilini chiedono al Comune di accelerare sul piano casa, che Pasquini definisce “una cornice da riempire di contenuti”. “Non riusciamo neanche a comprare 120 appartamenti dall’INPS, un ente pubblico”, osserva e chiede “un osservatorio pubblico, un’agenzia” e poi di “avviare gli acquisti e porre rimedio al fatto che a Roma gli sfrattati, in media 8 famiglie al giorno, non ricevono alcun tipo di assistenza”.

 

Un fenomeno che va avanti da anni, aggravato dalla crisi del trasporto pubblico

La progressiva espulsione delle famiglie a basso reddito, in larga misura lavoratori dipendenti, dai centri delle città italiane, è un fenomeno in atto ormai da tempo, a cui però oggi si aggiunge un’ulteriore minaccia: chi viene buttato fuori avrà sempre più difficoltà anche a rientrarci per lavorare, per effetto della crisi del trasporto pubblico locale e dell’ondata di aumenti tariffari (a Milano da gennaio il biglietto è aumentato a 2 euro e 20, a Roma l’aumento da 1 euro e 50 arriverà nel 2024), dei divieti di accedere ai centri imposti dalle amministrazioni se non si possiede un mezzo a basso impatto ambientale (a Roma l’ampliamento della green zone ha provocato una vera e propria sollevazione, costringendo Gualtieri a una parziale marcia indietro) e dell’introduzione di tariffe di accesso, come a Milano, dove da ottobre per entrare in Area C si pagheranno 7 euro e 50 anche 7 giorni su 7, 3 euro per i residenti, che hanno un pacchetto di 40 ingressi gratuiti. Nel frattempo però alcuni sindaci dell’hinterland lamentano i tagli alle corse dei bus che collegano i loro comuni al centro di Milano. A Genova il sindaco Bucci ha ventilato l’ipotesi di un ingresso a pagamento, ma almeno con la promessa di sfruttarne i proventi per rendere il trasporto pubblico gratuito, peraltro già in vigore sugli impianti verticali che collegano la parte bassa della città ai quartieri collinari. Una scelta che il sindaco di Milano Sala contesta, definendola “demagogica”. E infatti lui le tariffe le aumenta.

Del resto si tratta di un fenomeno internazionale. A maggio l’amministrazione Biden ha approvato il congestion charge, la tariffa fino a 23 dollari al giorno che la città di New York imporrà a chi vuole entrare col proprio mezzo a Manhattan. A Londra c’è dal 2003 e oggi ammonta a 15 sterline. Si tratta di sperimentazioni che dalle grandi metropoli potrebbero estendersi anche ai centri più piccoli, non senza contraddizioni, perché per far funzionare le città vetrina servono comunque dei lavoratori. In questo senso l’interrogativo posto dai sindacati degli inquilini – che città vogliamo? – per loro apre una riflessione sulle possibili alleanze: inquilini, studenti, pendolari, lavoratori, figure sociali distinte, ma che spesso concretamente si sovrappongono.

Guarneri conferma che i fatti spingono in quella direzione: “Prima vedevamo gli studenti come un potenziale ostacolo per le famiglie in cerca di abitazione, perché 3-4 studenti fuori sede che pagano 500 euro per frequentare le lezioni a Roma fanno 2.000 euro di affitto, una cifra che difficilmente una famiglia si può permettere. Ora, invece, gli studenti vengono cacciati, perché c’è l’ “effetto Airbnb” e nei mesi scorsi hanno lanciato il loro grido di dolore”.

Ricucci assicura che “Come sindacati confederali da tempo stiamo cercando di riunire più soggetti in una lettura unica del problema: una città sempre più diseguale. Dobbiamo fare alleanze serie guardando anche oltre il sindacato, al terzo settore e alle associazioni di quartiere. Un lavoro di lunga lena e per nulla semplice, ma la scommessa sta lì”.

Sullo sfondo aleggia la questione salariale. Perché, con un’inflazione che non accenna a calare e i tassi di interesse in crescita, per pagare un affitto a prezzi di mercato, accendere un mutuo, cambiare auto (mentre le incertezze sulla consegna dei veicoli nuovi fanno esplodere i prezzi dell’usato) e pagare un pedaggio o semplicemente fare l’abbonamento al trasporto pubblico gli attuali stipendi non bastanoè. Come sanno bene i sindacati.

[La foto del titolo è stata pubblicata con licenza creative commons su Flickr.com da Nicola]

 

 

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