“Io Capitano” è il film che aspettavamo

L’opera di Matteo Garrone, appena premiata con il Leone d’Argento a Venezia, è cinema-antidoto allo sguardo anestetizzato che qualche volta rivolgiamo alla realtà

 

Al principio di Io Capitano si vede di sfuggita, in una strada di Dakar, un ragazzo che indossa una maglietta della Roma: una cosa che se uno è romanista può succedere che provochi un sussulto. Dopo qualche decina di minuti se ne vede un’altra, ma nel frattempo è passata ogni voglia di sussultare per una cosa del genere, ogni possibile allegria.
È un film potente, Io Capitano, e doloroso, ed è anche il film che aspettavamo da tempo.
Racconta il viaggio di due giovanissimi dal Senegal alla Sicilia, unico come lo è la vita di ogni persona, e al tempo stesso analogo a quello di decine di migliaia di africani.

Forse è proprio per questo che può succedere, per paradosso, di avere l’impressione del già visto, poiché i barconi malmessi che arrancano in mare pieni di gente sono tra le immagini simbolo di questi tempi. Così come lo stanno diventando i cadaveri insabbiati di cui sono disseminati i tratti di deserto che fanno da rotta ai migranti.
Questo è – semmai – già visto, perché appartiene alla realtà: pedaggio pagato dagli umani al modo in cui intendiamo la frontiera.
Non sono già visti la casa, i familiari, i cortili e le strade da cui partono i due ragazzi. Non lo sono, per niente, i luoghi di prigionia e tortura che ne ostacolano il viaggio. Non lo è l’avvistamento delle piattaforme petrolifere che no, non sono l’Italia, ma compaiono in mezzo al mare in un momento di forza visiva quasi assoluta.
Non c’è quasi niente che sia meno “già visto” di un film italiano che racconta proprio questo viaggio, che ha l’Italia come paese di destinazione per piazzamento geografico. Dunque, si può dire, per natura.

Un film che è documento, certo, ma non documentario, restando invece finzione, benché ancorata – verbo di mare, per un’ironia che non fa sorridere – ai funzionamenti del presente.

Ecco. Il presente. Siamo cresciuti a forza di film sulla seconda guerra mondiale, e poi sul Vietnam. Tra gli uni e gli altri figurano capolavori, come ne abbiamo tra i film che raccontano lo schiavismo, accomunati però dal fatto di essere successivi, a volte di parecchio, alle tragedie che raccontano.
Io Capitano parla invece di una strage mentre la strage è ancora in corso. E può riguardare le persone che vediamo nel film, o quelle partite poco prima, o poco dopo.
È storia dunque, e cronaca, restando però profondamente cinema. Lo spiega benissimo Garrone stesso, il regista, quando per raccontare la scelta di guardare al contrario, dal principio, il viaggio di cui vediamo tutt’al più l’arrivo, quando c’è, parla di “controcampo”, che è parola di cinema.

Di certo è cinema – che infatti vince un meritatissimo Leone d’Argento come premio alla regia – quella capacità di stare dentro la baraonda di sequenze affollate e concitatissime facendo dimenticare a chi guarda che c’è una macchina da presa da qualche parte. E poi, dopo uno stacco, cercare e trovare forza nei primi piani. Quando non addirittura nell’ampiezza dell’immaginazione e del sogno.
Ed è appunto cinema, e prima ancora realtà, la varietà di magliette delle squadre di calcio indossate dai ragazzi, fascinosa calamita esercitata dall’Europa, che sono frutto di carità proveniente dai paesi ricchi e hanno al tempo stesso la forza plastica di impronta lasciata dal capitalismo globale sul luogo del delitto.

Viene in mente, forse per il gusto di restare dentro un’arte e la sua possibile presa sul mondo, una frase di Rainer Werner Fassbinder che è anche il titolo di un suo libro: i film liberano la testa. Dunque sarebbe bello che Io Capitano lo vedessero più persone possibile: dai governanti agli oppositori, passando per le scuole.

Per combinazione, il giorno di uscita del film, 7 settembre, è stato quello in cui a Roma si è aperto A bordo!, il festival di Mediterranea Saving Humans, durato quattro giorni per sensibilizzare quanta più gente possibile su quello che sta succedendo nel Mediterraneo, il mare che chiamiamo nostrum.
È possibile perciò, sempre in tema di cinema e realtà, che qualcuno abbia deciso di andare a farci un giro. Magari apprendendo, cosa possibile anche attraverso qualche articolo di giornale, che alla nave della ong italiana, che si chiama Mare Jonio, è stata ordinata “la rimozione prima della partenza delle attrezzature e degli equipaggiamenti per lo svolgimento del servizio di salvataggio”. La nave dunque, spiegano da Mediterranea Saving Humans, potrebbe navigare ma non le è consentito salvare vite umane.

Nel frattempo Lampedusa, luogo di approdo di moltissimi dei migranti che arrivano via acqua, scoppia di gente, e il conteggio di uomini donne e bambini che hanno perso la vita in mare nei primi otto mesi del 2023 ammonta a 2.300 persone: un po’ meno di quante ne morirono negli attentati dell’11 settembre 2001 a New York, ma è una distanza che proseguendo a questo ritmo verrà ampiamente colmata entro l’anno.
Non rivela niente, Io Capitano, che non si potesse già sapere. Ma è possibile che qualche spettatore, sempre in materia di cinema e realtà, ne tragga spunto e magari energia per cercare di essere, in questa guerra delle frontiere che guardiamo come sotto anestesia, almeno disertore.

 

 

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