“Io Capitano” è un film sul desiderio

“Critica delle critiche” sul film di Garrone, che rappresenta una contronarrazione, rispetto ai luoghi comuni sui migranti, un modo di presentarli alternativo, a quella serie di pregiudizi che abbiamo nei loro confronti, coinvolgendo lo spettatore in una identificazione impensata: entrare nei panni di un ragazzino nero mosso da desiderio e da null’altro.

 

Non scrivo quasi mai di cinema, ma questa volta ne ho sentito la necessità dopo avere letto e sentito giudizi negativi sull’ultimo film di Matteo Garrone, Io Capitano. Critiche che non condivido per nulla e aggiungo: critiche che trovo errate. Non se la prenda chi legge, per questa mie affermazioni. Capisco che viviamo in un’epoca dove è proibito non solo riconoscere i propri errori, e ancora di più affermare che un altro li abbia commessi, però sono stanco di un confronto che prevede la totale validità di qualsiasi cosa si dica, e dall’altra parte l’espressione estrema delle proprie opinioni, quale ultima verità, senza uno straccio di ragionamento critico.

Di conseguenza, né lodi sperticate, né atteggiamento adorante, di fronte ad un film apparentemente semplice – si presenta con una narrazione classica, come “il viaggio dell’eroe”, quindi di facile comprensione – e che tuttavia nasconde una sua finezza e intelligenza fuori dal comune. Lamentano: Non è più il Garrone dei primi film, con personaggi ambigui, controversi. Ha uno stile che non è realistico e nemmeno del tutto favolistico. La rappresentazione del Senegal è stereotipata. La drammaturgia in alcune parti non funziona. È un film a tesi. Eccetera, eccetera…

Trovare una chiave espressiva per raccontare una storia che contiene una serie di molteplici riflessi e spigoli con il presente è complicato. È un percorso con diverse trappole. Ce ne sono molte. C’è il rischio di essere politicizzati, quello di fare sociologia, o di voler spiegare le ragioni, come pure uno sguardo che non fa altro che dire: “poverini”. Invece Garrone lascia da parte tutta questa roba, cerca di andare all’essenziale, e cioè al desiderio che muove, anche ingenuamente, l’azione dei due ragazzi. Non tralascia quegli aspetti brutali e terribili a cui sono costretti i migranti clandestini, quella discesa all’inferno che toglie ogni illusione al viaggio, senza però calcare la mano. Per una ragione: quello che gli interessa è mostrare la risalita e la consapevolezza con cui i protagonisti riescono a raggiungere terra dopo aver attraversato il Mediterraneo.

È una contronarrazione, rispetto ai luoghi comuni sui migranti, un modo di presentarli alternativo, a quella serie di pregiudizi che abbiamo nei loro confronti, coinvolgendo lo spettatore in una identificazione impensata: entrare nei panni di un ragazzino nero mosso da desiderio e da null’altro. Certo, sì, so bene che ad attrarre, e quindi a muovere questi minorenni, nel film come nella realtà c’è all’inizio il miraggio di uno stile di vita condiviso da tanti giovani in ogni parte del mondo, quel diventare “famosi” e “firmare autografi”, nulla di nuovo, anche per loro. Però poi i due, molto vicini a Pinocchio e Lucignolo all’inizio dell’avventura, sono costretti a mettere da parte quei “sogni”, senza tuttavia rinunciare al loro viaggio.

Le immagini e la costruzione nel suo insieme sono misurate, sorvegliate, senza nessun esibizionismo della macchina da presa; anche le riprese con il drone trovano una loro utilizzo sensato, come pure il montaggio che segue gli snodi della vicenda non distraendo l’attenzione dello spettatore, il quale rimane attaccato per gran parte del film al volto del protagonista che sa dire tanto.
C’è insomma un equilibrio, che riesce a tenere insieme le diverse strade possibili che avrebbe potuto prendere il film, e al tempo stesso scegliendo di rimanere attaccati a una linearità esemplare, che riesce a rovesciare cliché intellettualistici e sociologici.

Ecco, in fondo qual è l’errore che fa chi esprime certe critiche (mi auguro che sia chiaro che non è mia intenzione vietare le critiche)? È quello di non cogliere il motore profondo e rivoluzionario che sta alla base di questo film: il desiderio di un scarto sociale, di un escluso dal nostro bel mondo.
Ed è questo desiderare a cui non si può porre nessun ostacolo, non c’è frontiera o politico che possa bloccare chi è mosso da una tale motivazione. In quel mettersi in viaggio c’è l’esperienza politica più importante che si possa vivere, quella che permette di mettere in discussione l’ordine così com’è dato. E chi è giovane meglio di ogni altro porta con sé in dote un desiderio irrefrenabile, che finisce per scontrarsi con la realtà (come potrebbe essere altrimenti?), ma che non può essere fermato. Può essere represso, questo sì. Fatichiamo a riconoscere questo desiderio?
Ho il sospetto che siamo oramai così abituati a nutrirci di rancore, asserragliati in un depressivo piacere delle cose, da non cogliere quella spinta radicale che nasce dal desiderio.

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