Il rito dei Sacconi Rossi

“Tutti questi uomini sono vestiti di una lunga tonaca rossa, hanno il capo coperto di un cappuccio fatto a punta, il quale ricopre pure loro la faccia, con due aperture per gli occhi. Camminano tutti a piedi scalzi. Hanno i lombi ricinti da una fune, alcuni portano croci, ma i due spettri rossi che aprono la marcia, portano in mano teschi umani, ed ossa di morto. Mormorano preghiere nell’andare. Sono la confraternita dei Sacconi rossi”.

No, non è l’inizio di un racconto horror, ma la cronaca di una processione alla quale ha assistito, a metà dell’Ottocento, lo studioso Ferdinand Gregorovius. Una cronaca non molto diversa da quella che anche ciascuno di noi potrebbe fare, passando la sera del 2 novembre all’Isola Tiberina.

Già, perché la “Veneranda confraternita de’ devoti di Gesù Cristo al Calvario e di Maria Santissima Addolorata in sollievo delle anime sante del Purgatorio” – questo l’interminabile nome ufficiale dei cosiddetti “Sacconi Rossi” – è tutt’ora in attività e, nel giorno dei morti, celebra ancora i propri riti, dal sapore decisamente un po’ macabro.

La confraternita

La storia dei Sacconi rossi inizia nel XVII secolo, e si sviluppa nel Settecento, quando la confraternita prende sede nella Basilica di San Bartolomeo all’Isola Tiberina, con il compito di ripescare e dare sepoltura agli annegati nel Tevere. Questa pia attività, veniva svolta indossando dei caratteristici sai, con cappucci e mantelli dal colore rosso acceso, da cui il soprannome.

Ai cadaveri trovati lungo il fiume, veniva data degna sepoltura nei locali sottostanti la basilica. Questi divennero un vero e proprio cimitero, dove le spoglie venivano utilizzate per comporre elementi decorativi, o poste lungo le pareti all’interno di piccole nicchie, creando così un effetto simile a quello della famosa cripta dei Cappuccini di via Veneto.

Il luogo però risultava decisamente insalubre, poiché trovandosi al livello del Tevere, nei mesi invernali, bastava una semplice piena per rendere i locali impraticabili. Poi, nel 1836, papa Gregorio XVI, a causa delle epidemie di colera diffuse in città, decretò che tutte le sepolture avvenissero esclusivamente all’interno del cimitero del Verano e non più nelle chiese. Da qui iniziò un periodo di decadenza per la confraternita.

La rinascita del rito

Con gli anni Ottanta dello scorso secolo, la tradizione dei Sacconi rossi ha però ripreso vita. Inftti, grazie all’opera di recupero del Centro Luigi Hutter per lo studio e la documentazione sulle confraternite e le università dei mestieri romane, insieme all’Arciconfraternita di Santa Maria dell’Orto e ai padri del Fatebenefratelli, dal 1983 viene celebrata una volta l’anno, ogni 2 novembre, giorno della commemorazione dei morti, una messa nella chiesa di San Giovanni Calibita, cui segue una suggestiva processione intorno all’isola Tiberina tutta adornata con caratteristici lumi ad olio.

La fiaccolata notturna prevede preghiere speciali per i “morti delle acque”, cioè per le anime degli annegati e si conclude con un lancio simbolico nel Tevere di una corona di fiori, a memoria dei tanti che nei secoli vi hanno perso la vita. La processione si sposta poi nell’oratorio dell’Addolorata e nel suoi sotterranei, dove vengono benedette le sepolture.

In questi sotterranei, tra nicchie con teschi, lampadari di ossa e ceri votivi, troneggia nella zona dell’altare un macabro scheletro rivestito di un sacco rosso, ulteriore monito alla caducità dell’esistenza umana. Ed è qui che la cerimonia si conclude, con le sue atmosfere da racconto gotico, ma anche con quel gusto barocco di ostentazione della morte, al fine di sublimarla, per esorcizzare la paura e il mistero che da sempre l’avvolge.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.