L’appuntamento

Un racconto romano di Marino Galdiero

Gesù è da solo a casa, mi preoccupa pensare a lui, quando eravamo nella vecchia abitazione era diverso, lì lui aveva imparato a muoversi anche se cieco. All’inizio sbatteva ma poi aveva trovato i suoi riferimenti. Adesso mi fa stare in ansia pensare a lui che vaga per casa, finirà inesorabilmente contro qualche porta o mobile. Mi mette tristezza l’idea di Gesù, il mio cagnolino, che magari inizia ad abbaiare perché non si orienta. Non è bello, non è bello. Mi domando se era proprio il caso venire qui questa sera. Me lo sono concessa. Da quand’è che non uscivo più con un uomo di sera? Non ricordo. La cosa mi agita e non poco. Me ne stavo zitta, la lingua dentro e invece. Chissà che m’è preso. Davanti a tutti, in terapia di gruppo, prendermi l’impegno di uscire con una nuova persona dopo tanti anni e non solo, mi sono anche ripromessa di non essere passiva, di prendere l’iniziativa. Forse ho fatto un passo più lungo della gamba. Quando mi ripeto in testa “me lo sono concessa” sento un battito di tamburi, un ruzzolare di entusiasmo e di aria fresca. Un attimo dopo una vocina inizia a sussurrarmi di rinunciare, di mettere da parte qualsiasi ipotesi di rotolamento, di non aspettarmi nulla dagli uomini. Tu hai il cane, tu hai Gesù. Tu devi pensare a lui. Perché mai l’hai lasciato da solo questa sera a casa? E se gli succede qualcosa? Dipenderà sicuramente da te. Lui vuole te. Tu sei per lui necessario. Non ci vede. Tu hai lasciato a casa da solo un povero cane cieco che ha oramai sedici anni di vita. Un vecchio cane solo. Tu non sai curarti degli altri. Tu non sei una donna che sa prendersi cura delle cose. Che non sa prendersi cura degli animali. Come puoi mai pensare di poter stare con un uomo?  

Le domande, sempre le stesse. Mi manca il respiro. Non soccombo però, sposto in avanti le difese, riposiziono i sacchetti protettivi della mia trincea interiore e alzo gli occhi al cielo, spazio verso altri orizzonti e riprendo a far circolare ossigeno nei polmoni, come se una qualche forza misteriosa scendesse dall’alto e rialzarmi. Adesso è già dieci minuti che sto con la testa rivolta verso l’azzurro striato di ramature sopra di me, questa primavera tardiva con il suo fresco serale è un buon sostegno. Stai calmo, dico al mio giudice cattivo. Mica sei il padrone assoluto dei miei pensieri. Lo sai che sono due anni che vado in terapia. Non butterò ogni cosa via per i tuoi ricorrenti tentativi di colpevolizzarmi. Stai buono. Anzi, stai zitto. Un bel respiro e ricominciamo: inalare l’aria, trattenerla per cinque secondi, sputarla fuori lentamente e ripetere l’esercizio di nuovo. E poi: prendere tempo, allargare l’orizzonte dello spazio, dentro devi sentirti come una bolla che misura l’orizzontalità di un piano. Adesso ci siamo. Meglio d’una sigaretta.

 

Mi sa che sono arrivata presto. Mi tocca aspettare. Mi tocca tornare a pensare a Gesù. Mi sa che se continua così riprendo a mordermi le unghie. Le pellicine, le pellicine di quando ero bambina, da staccare con zelo. Non si mordono le pellicine, quale divieto migliore per incentivare piccole e segrete ossessioni di una bambina, piaceri da nulla, resti dal piatto principale dell’affetto. Perché ci sarà pure un motivo che genera l’ossessione per la precisione e la pulizia. Ci sarà un motivo. Mi bruciano ancore le guance per gli schiaffi a mano piena che prendevo da mia madre, quando non ne poteva più di me, quando era troppo sola per potermi consolare, quando era troppo stanca per tutto. Che tristezza l’infanzia.

Il collo mi scricchiola appena lo piego, come se ci fossero delle rotelle meccaniche dentro. Tra poco sarà qui di sicuro. Non m’interessa costruire troppe fantasie sul suo aspetto, preferisco di no. La testa però non si ferma. Meglio distrarmi, pensare ad altro, ingannare il tempo. L’appuntamento era per le diciotto, orario intermedio e poco impegnativo. Un orario che non chiede molto, concede feritoie ampie per defluire veloci altrove. Chissà cosa starà facendo Gesù. Certo, trattenermi oltre una determinata ora, in ogni caso, non è nemmeno da prendere in considerazione. Sono abituata differentemente, e poi il mio cagnolino ha bisogno di me. Quanti gradi di distanza potranno esserci tra me e lui, meno di due. Piccolo cucciolotto, c’è la tua mammina che pensa a te. Poi se ritardo mi urina per casa, povera bestiolina, senza nessuno che lo porti a fare i suoi bisogni. Ci prendiamo un caffè in piazza Campo dei Fiori, una camminata per le stradine intorno e tutto finisce lì, al massimo ci si risente, no? Io ho qualcuno che mi aspetta a casa, sia chiaro. Gesù, mio piccoletto. Mancano un quarto d’ora alle diciotto. Sono arrivata in anticipo, con i mezzi pubblici succede. Avevo timore di far tardi. C’è un solo angelo ai lati della chiesa. Non me n’ero mai accorta che in cima a Sant’Andrea della Valle a sinistra è poggiato un angelo con delle ali che vibrano nell’aria e nella posizione corrispondente di destra c’è invece un vuoto, sopra la base non vi è nulla. Che cosa curiosa. Strano, come se ci fosse stata una dimenticanza o un furto o qualcosa d’incompiuto. Forse l’artista a cui erano state commissionate le due statue non è stato pagato e si è tenuto a casa l’altro angelo. Avere un angelo a casa per mancato pagamento. Fa pensare, l’angelo assente intendo dire, uno finisce per pensarci più di quanto vorrebbe. Anch’io sto sempre a pensare a Gesù quando non sono con lui. Temo che gli possa capitare qualcosa, che possa morire e che io possa essere incolpata della sua morte. Entro, tanto mancano ancora dieci minuti all’appuntamento. Meglio non farsi trovare in attesa dagli uomini, dice Marilena. Non so se ha ragione o meno. Entro in chiesa, almeno si abbassa questo fastidioso rumore di macchine. Quando uno prova a coprirsi le orecchie con le mani il frastuono si condensa all’infinito. Appena oltrepasso la soglia di Sant’Andrea della Valle accade la stessa cosa, come se avessi una cuffia, il fuori arriva racchiuso dentro una camera insonorizzata, quel frastuono è un velo lontano che sprofonda nel silenzio.

Intingo la mano nell’acquasantiera.

Non entro in una chiesa da quando ero adolescente, non mi ricordo di preciso quando è stata l’ultima volta. Prima, da bambina, ogni sera, e al mattino, mi affidavo alla madonnina: prega per me proteggimi da ogni male, mi ha insegnato a ripetere suor Federica all’asilo. Io ripetevo e mi sentivo sicura, sapevo che potevo contare su quella signora vestita di rosso e di azzurro con un bambino in braccio, mi avrebbe protetto, voluto bene, esaudito ogni mio desiderio. La madonnina dei miei desideri è poi svanita, come se non avessi più nulla da chiedere al mondo e a me stessa. Non avevo più nulla da chiedere neanche a lei.  Perché dovrei parlare da sola, mi sono chiesta. In quelle mie preghiere da bambina si apriva qualcosa di misterioso dentro di me, una sorta di calore. No, non era calore. Era un’altra cosa.

Quanto oro e quanto è grande questa chiesa. Le decorazioni del pavimento mi danno l’impressione di ridurre il mio peso, mi sento alleggerita, di camminare nello spazio, quasi fossi un’astronauta, che strana sensazione. I miei occhi vagano senza trovare un punto fermo dove posarsi, su questa navata centrale sai quante corse e scivolate si farebbe Gesù. In questa cappella c’è San Sebastiano, bello e trafitto, al solito. La cupola è enorme, a guardarla si rimane storditi, pare non finire mai, un’onda di corpi che piegati uno sopra l’altro si stringono ad imbuto vero lo sbocco finale di pura luce. Mi siedo e riposo le palpebre, gli occhi mi si chiudono lentamente. Ora posso respirare. Mi sento meno tesa. Sì, c’è Gesù che abbaia da qualche parte ma non gli do ascolto. Riesco a vedere tutto stando con gli chiusi, a considerare le diverse parti di me, a riprendere contatto con quel mio piede che si muove in basso, con la mia pancia e le ossa che non scricchiolano più, stanno distese come possono, non cerco pose e non mi chiedo nulla. Fa fresco e si sta bene in questa chiesa. Sotto questa cupola mi sta scomparendo l’affanno e l’ansia con cui vivo, che sarà mai? Dovrò tornarci tre volte a settimana, quasi fosse una cura dai risultati miracolosi? No, non c’è bisogno. Quanto è piacevole tornare in se stessi. Ho letto che questa cupola rappresenta La gloria del paradiso. Ecco in quella Gloria io vorrei perdermi per sempre. Che ore sono? Le diciotto e quindici. È passato l’orario del mio primo appuntamento dopo anni che non mi capitava più un avvenimento del genere. Adesso sto bene qui e questo mi sembra molto. Se il tizio è interessato tornerà oppure sarà io a richiamarlo. Penso a Gesù che mi starà aspettando a casa. Avrà fame. Speriamo che non si sia fatto male sbattendo contro qualche mobile. Aspettami Gesù, che ora arrivo.

 

 

 

 

 

 

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